La scrittrice Patrizia Ciava è tornata in libreria con il nuovo romanzo “Una vita quasi perfetta”, pubblicato da Ad Astra Edizioni per la collana I prismi e presente sul mercato anche nella versione inglese con il titolo A life almost perfect.
Si può amare qualcuno al punto da lasciarlo andare? È questa la prova lacerante che la protagonista è chiamata ad affrontare. Suo marito, l’uomo che l’ha aiutata a guarire dalle ferite di una relazione tossica, giace in coma da più di un anno. I medici non le danno speranze e le chiedono di autorizzare il distacco dei supporti vitali. Ma come si fa a dire addio a chi sembra ancora presente, sospeso tra la vita e la morte?
Mentre combatte con il dolore e l’incertezza di una decisione irreversibile, la sua voce si intreccia con quella di un altro personaggio: un celebre musicista, adorato dai fan. Ma dietro la facciata di una vita apparentemente perfetta si celano tormenti interiori e un oscuro malessere che sembra preannunciare un destino ineluttabile.
Una vita quasi perfetta mette in scena il dramma della scelta e della responsabilità. Credi che oggi la società sia pronta ad affrontare temi così complessi senza semplificarli o giudicarli?
La società tende a semplificare questi temi perché deve stabilire principi validi per tutti. Ma la verità è che ci sono scelte che non possono essere regolate da norme universali, perché appartengono alla sfera più intima e personale dell’essere umano. Decidere se mantenere o meno in vita un proprio caro dichiarato in stato vegetativo comporta dilemmi psicologici ed etici profondi, che ciascuno vive in modo diverso.
Nemmeno il testamento biologico può risolvere del tutto la questione, perché nessuno può sapere davvero come reagirebbe trovandosi in quella situazione. C’è una distanza enorme tra ciò che si pensa in astratto e ciò che si prova quando la vita ci mette davanti a un dolore reale, che coinvolge l’amore, la speranza e la paura di perdere per sempre una persona amata.
Viviamo in una società che tende a giudicare o a incasellare ogni scelta entro categorie morali o ideologiche, dimenticando che il confine tra giusto e sbagliato, in questi casi, è estremamente labile. Ciò che per qualcuno è un atto di compassione, per un altro può sembrare una rinuncia o un tradimento.
Proprio per questo motivo, nel romanzo ho voluto rappresentare due punti di vista diversi: quello della giovane moglie, che spera ancora in un miracolo, e quello della suocera, che avverte che suo figlio se n’è già andato e non riesce a sopportare la sua sofferenza prolungata. Due amori diversi, ma ugualmente profondi— perché l’amore, quando si trova davanti al limite estremo della vita, può assumere forme contrapposte e nessuna di esse può essere giudicata con leggerezza.
Questo romanzo non pretende di dire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Il mio intento era quello di aprire uno spazio di riflessione e di empatia, esplorare il labirinto di emozioni, dubbi e paure che chiunque, trovandosi in una simile situazione, potrebbe provare.
Il titolo suggerisce che la perfezione, nella vita, è sempre “quasi”. Che cosa rappresenta per te questa parola?
In realtà, il titolo si riferisce all’altro protagonista del romanzo: un celebre compositore e rock star, adorato da milioni di fan, con una famiglia ideale. Una vita quasi perfetta è infatti un romanzo a due voci, costruito come due diari paralleli. Dietro la facciata di una vita apparentemente invidiabile, il musicista nasconde tormenti interiori e un malessere profondo che sembra condurlo verso un destino ineluttabile.
Il titolo vuole suggerire proprio questo: che la perfezione spesso è solo un’apparenza, un fragile equilibrio che può spezzarsi da un momento all’altro. Solo a metà del romanzo il lettore scoprirà il legame che unisce i due protagonisti, comprendendo che quel “quasi” nasconde verità inattese e apre interrogativi profondi sul senso stesso della nostra esistenza.
Nell’affrontare temi delicati come il fine vita, la libertà di scelta e la responsabilità morale, trova spazio la fede nel tuo libro?
Il tema centrale del libro è il mistero della coscienza: non nel senso morale del termine, ma in quello più profondo dell’essere vivi, dell’essere consapevoli di avere un “io” che percepisce, sogna, ricorda, soffre, ama.
La domanda che attraversa la storia è: siamo davvero soltanto il nostro cervello, smettiamo di esistere quando l’attività cerebrale si ferma? Oppure qualcosa sopravvive, continua a sentire, sognare, provare emozioni?
Qualcuno la chiama anima, ma nel mio romanzo la domanda è affrontata in un’ottica esistenziale, non religiosa. È un interrogativo che mette il lettore di fronte al confine tra scienza e spiritualità, tra la vita che conosciamo e quella che forse continua oltre la soglia del visibile. È il bisogno di credere che ci sia qualcosa che sopravvive alla materia e al tempo, qualcosa che non possiamo spiegare con la sola ragione o con la scienza. A volte, sentiamo tutti che la nostra esistenza ha un significato che va oltre la biologia. È questa sensazione che ha spinto l’essere umano, fin dalle sue origini, a cercare una spiegazione attraverso la religione, la filosofia, l’arte, la spiritualità.
Nel romanzo ho voluto esplorare il mistero della coscienza anche in casi estremi: il coma, il sogno, l’anestesia, l’esperienza di pre-morte.
Parliamo della tensione tra razionalità e sentimento. Come riesci a mantenere l’equilibrio tra introspezione psicologica e ritmo narrativo durante la stesura che, peraltro, tu per prima hai definito “un viaggio emotivo intenso”?
Quando scrivo, mi immergo completamente nella storia: il mondo esterno smette di esistere e vivo le emozioni dei miei personaggi come se fossero le mie. Provo ciò che loro provano, soffro e amo con loro. La storia nasce nella mia mente già con la sua voce e il suo ritmo; spesso immagino i dialoghi e le descrizioni come se fossero già scritti, e spesso la mano non riesce a seguire la velocità del pensiero.
Il romanzo è nato di getto, in pochi mesi. È stato un viaggio emotivo intenso, in cui la razionalità serviva a dare forma al sentimento e alle emozioni. Il lavoro più lungo e delicato è venuto dopo, durante la revisione, che mi ha permesso di dare equilibrio alla materia viva del testo, dosare introspezione e ritmo narrativo senza perdere l’intensità delle emozioni.
Dopo Una vita quasi perfetta, sappiamo che hai firmato un contratto per Concorrenza al Paradiso. Puoi anticiparci qualcosa?
“Concorrenza al Paradiso” è un romanzo visionario, un’utopia che immagina il mondo come potrebbe e dovrebbe essere se gli uomini imparassero a riconoscersi per ciò che li accomuna e non per ciò che li divide. Come in tutti i miei romanzi, anche qui riaffiora il tema della morte e del “dopo”, che considero una delle grandi domande che attraversano la condizione umana.
Ne Il silenzio oltre la porta ho descritto le incongruenze della vita e il mistero di ciò che ci attende oltre; ne Il diritto di vivere — premiato al Concorso “Il Convivio – Giardini di Naxos” nel 2009 come miglior libro di narrativa — ho affrontato il tema della depressione e del suicidio. Con Concorrenza al Paradiso supero il confine, immaginando un mondo in cui l’umanità conosce con certezza cosa l’attende nell’aldilà.
Oltre a offrire una possibile risposta all’eterno dilemma sull’esistenza dopo la morte, il romanzo si interroga su qualcosa di ancora più profondo: cosa accadrebbe se gli esseri umani smettessero di temere la morte e la considerassero soltanto un passaggio verso una vita migliore? Forse cambierebbe tutto — il modo di vivere, di amare, di convivere con gli altri. È da questa visione che nasce “Concorrenza al Paradiso”: un tentativo di immaginare un mondo in cui la consapevolezza dell’aldilà renda gli uomini più giusti, più solidali e, paradossalmente, più attaccati alla vita.
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