Dopo la brillante conquista della finale allo Strega, il libro di Bajani è arrivato anche nella cinquina del Campiello con il suo “Il libro delle case”, un romanzo che, a pensarci bene avrebbe anche potuto chiamarsi “Le case del libro”. Vediamo perchè.
Inventio
Siamo di fronte ad un testo sperimentale, pioneristico, novecentesco, quasi avanguardista (anche se non sapremmo bene rispetto a quale retroguardia contrapporlo).
La trama è poliedrica, parcellizzata, rifratta all’interno di molteplici capitoli dispersi in ordine apparentemente caotico, ma tenuti insieme da un filo di continuità difficile da cogliere a una prima estemporanea lettura.
La cosa che emerge immediatamente è il fatto che ogni capitolo è diviso in due scansioni, non contraddistinte da segni grafici: nella prima il testo descrive ambienti domestici, case, arredamenti, infissi, disposizioni del mobilio, odori, abitatori (non necessariamente solo umani).
Nella seconda parte c’è un episodio che avviene all’interno di quella casa; quindi chi fa cosa, dopo aver compiutamente esaminato dove.
E le case in esame non sono poche, anche se alcune sembrano avere maggiore rilevanza di altre: c’è nel titolo di ogni sequenza una breve specificazione (Casa del sottosuolo, casa del prigioniero, casa del radiatore…) e poi un anno (dal 1976, 1978, 2004, 1998…). L’ordine non è cronologico, affatto. Eventi delle case degli anni 70 vengono intercalati a quelle degli anni 80, e poi 90 e poi 2000, andando continuamente avanti e indietro nel tempo.
In ogni casa avviene qualcosa, ogni tanto; talvolta non accade niente, come in effetti capita nelle case vere e proprie. Ma seguendo l’esile traccia degli episodi indicati si inizia a delineare una biografia per immagini del nostro protagonista, anzi, una biografia per case.
La sensazione che si ha è quella di dover riempire dei poligoni con la penna e vedere alla fine l’immagine a poco a poco comporsi.
C’è un papà collerico e depresso, una mamma sottomessa che parteggia per lui piuttosto che per il figlio durante i litigi, c’è uno studente gaudente, c’è una famiglia incomunicante, ci sono muri, silenzi, porte che si aprono e si chiudono, finestre che lanciano messaggi, segni e segnali.
Solo a fatica, qualcosa inizia a delinarsi. Poi, per rendere meno agevole il compito al lettore, alcuni capitoli sono composti da case allegoriche, o metaforiche; la casa diventa la forma espressiva per descrivere un mondo, o un immaginario. C’è la descrizione di una fede nuziale come se fosse una casa, una macchina, il carapace di una tartaruga. Il gioco dell’autore è trascinarti in un progressivo e oscillante stato di incertezza tra una rassicurante descrizione reale e un destabilizzante allusione semiotica. Adesso sta parlando di una casa vera e propria o sta utilizzando questo espediente per dirmi qualcos’altro?
Il gioco è piaciuto molto all’autore, e si vede, probabilmente che il suo lettore ideale non deve essere digiuno di nozioni di architettura, visto che spesso, accanto ai capitoli sono presenti vere e proprie planimetrie bidimensionali, tratte forse da qualche registro catastale, e raffiguranti le case designate nel testo.
Insomma, denotata la casa, e connota la casa; in continuazione, in ordine sparso, mescolando prolessi e analessi come se si trattasse di un racconto poliziesco.
Dispositio
La peculiarità della struttura dell’opera è tale da giustificare traslati, forse inappropriati, con altre forme analogamente sperimentali.
L’immagine di un romanzo costruito parcellizzando elementi descrittivi mi ha ricordato molto l’operazione di Italo Calvino nelle Città Invisibili; anche in questo caso, infatti, si ha talvolta la sensazione che la casa descritta sia sempre la stessa, e che sia una casa inesistente al di fuori dell’immaginario dell’autore. Che ogni parola sia una continua allegoria senza referente, pura simbologia, eternamente rinnovabile, secondo livelli di accesso idiosincratici.
Rispetto alle cinquantacinque città di Calvino, però, non c’è un racconto cornice a tenerle insieme, c’è solo il caos di una frantumazione narrativa di brani di descrizioni che, forse, altrimenti, dimostrerebbero mena consistenza di quanta ne evochino. Tentare di mettere in ordine, e di leggere in fila tutti i racconti relativi alle case secondo il rispettivo anno di pertinenza, forse consentirebbe di seguire con maggiore linearità le storie, e gli intrecci che nascondono, e, forse, il lettore avrebbe avuto di fronte agli occhi dei racconti non particolarmente allegri: mura, porte, varchi, finestre, luci, bui, soffitti, impiantiti sono continuamente presenti nella socialità, al punto da essere diventate delle metafore inconsapevoli di un rapporto biunivoco con la propria abitazione, come proiezione di sé dell’ambiente e dell’ambiente in sè.
Forse, la lettura cronologica delle fabulae presenti nel testo avrebbe sottratto questa emersione, e si sarebbe dimostrata deludente, altissima essendo la sfida di creare dei racconti autoconclusivi per ciascun ambiente e ciascun modulo abitativo.
Per questo il parallelismo con le Città di Calvino può reggere fino ad un certo punto, ed è per questo che le Città restano un capolavoro senza tempo, e le Case un esercizio sperimentale.
Rimescolare le carte aiuta a fare i giochi di prestigio, ma soprattutto a nascondere i trucchi, che in ogni prestigioso gioco sono sempre presenti.
Elocutio
Lo stile è la principale avventura dell’autore, nel quale sfida se stesso alla ricerca di sempre nuovi espedienti per descrivere una realtà altrimenti invisibile (D’accordo, avevamo finito con Calvino, ma ci siamo tornati).
La carta è il vero suolo pubblico della burocrazia, ciò che costituisce il fondamento dello stato. Il resto è solo conseguenza dell’intraccio tra denaro e alfabeto. Il linguaggio tenuto insieme dalla malta del denaro, è il materiale di costruzione del potere, il notaio è l’evidenza di questo connubio.
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