Dopo la cinquina allo Strega, questo romanzo di Giulia Caminito giunge nella finalissima del premio Campiello. Ed è una seria candidata alla vittoria finale. Vediamo perchè.
Inventio
La storia si presenta come un racconto in prima persona, espresso dal punto di vista di una ragazzina disagiata della periferia romana, nella cui crescita le fa da contrappunto la madre, donna dal carattere rigido e austero, fonte di conflitti familiari ed esistenziali. Dall’infanzia fino all’età adulta, il romanzo ritrae il percorso di questa protagonista che, però, anche alla fine del libro pare ben lungi dal potersi dire definitivamente uscita dall’eterna adolescenza della sua contemporaneità.
Perché riteniamo che il libro sia un candidato papabile? Perché l’autrice sembra sapere esattamente cosa il pubblico vorrebbe aspettarsi da una Giovane Scrittrice. Proprio così: scritto con la maiuscola; perché non è di un’autrice empirica che stiamo parlando, ma di un archetipo. Così come non ci sembra un romanzo vero e proprio quello che abbiamo appena letto, ma un prototipo editoriale, costruito con gli ingredienti consigliati dagli chef più autorevoli per la riuscita di una pietanza vendibile.
Mentre scorrono le pagine, la storia sembra sempre più inconcludente, la caratterizzazione dei personaggi forzata e incomprensibile, lo svolgimento delle sequenze paradossale e iperbolico. Però alcuni tratti ben calibrati svelano la chirurgica architettura dell’operazione.
Pensiamoci in attimo: la povera fanciulla, che tra le mille difficoltà riesce a farsi strada in una grande città, senza smarrire il proprio statuto di angelica innocenza da vergine del fango.
L’abbiamo già sentito da qualche parte?
Sì. Basta togliere Napoli e mettere Roma; togli l’amica e metti la madre; elimina il mare e mettici il lago (magari nel titolo). Sembra di muoversi nel canone dell’Amica Geniale: un romanzo di formazione al femminile, costruito intorno all’epica esistenza di una ragazza dotata di attitudini fuori dal comune.
Solo che nel nostro caso, la deuteragonista è la madre; quindi, una Figlia Geniale. Con l’ulteriore deroga che nel nostro caso la parabola culturale della fanciulla, partita dallo stato brado di creatura della periferia popolare (dove i giardinetti di casa sono pieni di siringhe, manco fossero vermicelli di processionaria) si conclude con un’inutile laurea in filosofia (inutile per stessa ammissione della personaggio, intendiamoci); e la sua verve professionale si traduce in un’ingloriosa nullafacenza conquistata al termine del proprio percorso di studi.
Dall’amica geniale, alla figlia banale. Quindi.
Però.
Il romanzo ammicca, evoca, richiama.
Richiama un universo pop – più che popolare – fatto di big bubble, di pop corn, di telefilm su Italia Uno, di canzonette. Pesca, con spirito trasversale, sia a destra che a sinistra. È tutta di sinistra l’iconografia della madre: propone di votare Bertinotti; non vuole alcun televisore in casa; neanche a parlarne di telefonini, non vuole che si acquistino libretti ma che si compulsino dalla biblioteca solo libroni, e l’unico tomo che ammette in casa è un dizionario. Addirittura, per la scuola non vuole che la figlia abbia un diario, essendole sufficiente un quadernetto (ammazza, e che sarà!) Insomma, una donna apparentemente integerrima, se non proprio integralista, interamente votata alla famiglia, al lavoro (nero), alla cura della casa (occupata illegalmente dopo uno scambio di case popolari), all’accudimento del marito rimasto invalido sulla sedia a rotelle.
Ma la sua caratterizzazione è abbastanza contraddittoria, se non proprio incongruente: vuole che la figlia frequenti un altolocato liceo romano anche dopo il trasferimento della famiglia in provincia (dimostrando poco orgoglio di classe); risparmia soldi per comprarle una racchetta da tennis (denotando fascinazione per gli stereotipi pariolini); non vuole che dentro casa si leggano romanzi (connotando un’indole filoscientista); ovviamente non vuole sentir parlare di telefonini (evidenziando un attitudine antimodernista). Eppoi: invita i figli (assidui frequentatori di centri sociali) a votare Rifondazione, però caccia letteralmente da casa il figlio maggiore (fratello della protagonista), senza dargli alcuna spiegazione, dopo che questi partecipa alla manifestazione contro il G8 di Genova (cui peraltro, aderì proprio il partito di Bertinotti).
Una parentesi, la storia si dovrebbe svolgere, incidentalmente, anche nel 2001; casualmente il libro viene pubblicato in occasione del ventennale di quei tragici fatti. Ma che furono tragici “dopo”; “prima”, infatti, nessuno immaginava che sarebbe potuto morire Carlo Giuliani; nessuno poteva immaginare che per due giorni su tre la polizia avrebbe consentito ai black bloc di devastare la città e il corteo; nessuno avrebbe sospettato i rastrellamenti notturni o le manganellate ai pensionati cinquantenni e a tanti altri ignari quanto innocui manifestanti. Però la nostra signora pareva aver capito tutte queste cose in anticipo.
Insomma, parrebbe una mamma intesa a inseguire il sogno dell’orgoglio moralistico di chi non abbia altra risorsa che la fiducia negli ideali, qualunque essi siano. Ma poi, e non si capisce perché, ad un certo punto del racconto cambia del tutto idea e inizia a tollerare televisioni, telefonini, mollezze e turpidutini della società dei consumi, e architetta un’illecita permuta immobiliare in spregio delle più elementari norme giuridiche. È caduto il muro di Berlino. Vent’anni dopo però.
E la figlia? La figlia è un personaggio che pesca piuttosto nell’immaginario di destra: si autorappresenta come la ragazza disabbiente ma frustrata da un’educazione pseudo sinistrorsa. E che rimprovera alla madre di averle sempre negato, nell’ordine: “in primis la televisione, i telefilm su Italia Uno, le meches bionde ai capelli, le figurine dei calciatori, il Game Boy, la PlayStation, Tomb Rider, tutti i libri che m’hai vietato, le Lelli Kelly luminose, i Chupa Chups da succhiare ogni pomeriggio (…) il cellulare che trilla e trilla e non si stanca mai, il McDonald’s dove festeggiare il compleanno, la borsa di Guess da abbinare alle scarpe, miliardi e miliardi di scarpe Nike e Adidas, i costumi Sundek, le magliette di Winnie di Puuh, le compilation del Festibalbar, i dischi di Britney Spears (…)l e Big Babol da masticare in classe” (l’elenco completo è ancora più lungo, ed è a pag. 124). Mancava soltanto la Coca Cola, e i dischi di Fiorello, poi il quadro sarebbe stato completo. Una figlia liberista e libertaria, contro una madre moralista e laicamente bigotta.
Ecco svelato perché questo libro, apparentemente innocuo, si presenta furbo e furbescamente ecumenico; dove il contesto del racconto e l’epica dei personaggi sono dati attraverso la trasformazione della realtà in un gigantesco collage di luoghi comuni. Proprio dove il lettore può sentirsi a suo agio.
Insomma, mira per cogliere, ma non coglie nel segno.
La storia si rivela, infatti, priva di spessore e di continuità; la stessa autrice, invervistata in occasione dello Strega, ha confidato che aveva scritto il romanzo durante il Covid ma che intorno alla metà del libro si era fermata, colpita da un’inspiegata crisi creativa. Poi ha concluso il lavoro, spinta dal suo editore.
Ma la fluidità del testo sembra smarrita, la consistenza dell’intreccio smagliata e rammendata per giungere comunque ad una conclusione.
Che si dimostra parecchio più triste della partenza.
Chi è questa protagonista?
Una ragazza piena di difetti, di complessi, di ansie, di paure; che improvvisamente si traducono in inusitati gesti di violenza.
Sì, è la violenza la cifra di questa eroina.
E i gesti di violenza sono sparsi, qui e lì, nel corso del testo. Rompe la rotula ad un compagno fighetto, rompe il parabrezza al moroso distratto, soffoca fino quasi ad uccidere una compagna di comitiva; insomma, all’improvviso dà di matto e inizia ad alzare le mani, e con la violenza risolve alcune situazioni che altrimenti non può articolare né con l’astuzia, né con la grazia, né con la fortuna.
Mah…
Dispositio
La storia si apre in medias res, con una signora alle prese con il tentativo di farsi ricevere da un’impiegata pubblica, e con la patetica descrizione dei suoi tentativi per ottenere accoglimento alle proprie infondate istanze di assegnazione di un alloggio pubblico; e, quindi, con l’intervento di altri impiegati che di peso la mettono alla porta, allorché la nostra si rifiuti di accettarne il burocratico rifiuto.
Poi il nastro si riavvolge, e si capisce che quella signora è la madre della protagonista, una bambina residente in un bugigattolo, in un luogo toponomasticamente squallido della periferia romana. E di lì ha l’abbrivo la sua trista parabola.
E quindi le prime esperienze scolastiche, le prime cotte, le prime storie d’amore, le prime amicizie. Viste sempre da una prospettiva di marginalità, di subalternità, di estraneità a un mondo ansiogeno e brutale, in bilico tra gli esclusivi (ed escludenti) ragazzotti della medio alta borghesia di Roma nord (dove inizialmente aveva trovato una residenza), e i giovinastri perdigiorno (ma più accoglienti) della provincia, in una città lacustre (dove successivamente s’era trasferita la famiglia). In mezzo c’è lei, che inizialmente si sente fuori posto in entrambi i contesti, ma che a poco a poco li conquista, attraverso anche questo espediente della violenza fisica con cui mette in riga le situazioni più ingarbugliate.
Una violenza nascosta, però efficace; ma con cui non conquista alcuna leadership nel gruppo, e neanche la definitiva accettazione. La violenza è funzionale a garantire l’intangibilità del proprio anonimato. La morale è: se vivi ai margini, anche l’oblio sociale diventa una vittoria, l’importante è essere lasciati in pace, perché l’alternativa può essere l’inferno dei bulli, delle chiacchiere del paese, la compromissione di un’immagine pubblica, che in realtà non esiste ancora, e quindi il suicidio (cui l’autrice destina una delle amiche della nostra eroina).
Quando però, finalmente, riesce a ottenere un ruolo accettato e definito nei propri circuiti relazionali, ed è così conclusa la tensione narrativa dell’infanzia difficile, il meccanismo narrativo si inceppa. E il romanzo prosegue a vuoto per un centinaio di pagine senza costruire più accorgimenti per tenere viva l’attenzione, e senza mostrare quale sia, in concreto (ma neanche in astratto), il rapporto di questa protagonista con il proprio ambiente. La violenza finisce (non ce n’è più bisogno), la mamma si imborghesisce, lei si laurea, si lascia la provincia e si torna nella casa di Roma. Ma in fondo non c’è nessun mutamento di status nell’eroina, e la circolarità della vicenda è meramente apparente. Ma la sensazione di estranità e di disadeguatezza del personaggio rispetto al suo mondo non è stato affatto risolto, anzi forse si è ulteriormente e drammaticamente acuito al termine del racconto.
Solo che la cosa, adesso, non sembra essere più un problema. E l’eroina invece di conquistare un regno, o un principe, o un premio ora acquisisce definitivamente quell’anonimato che da bambina vedeva sempre minacciato dal rischio di diventare una preda del dileggio. E il premio per questa riuscita è un anonimo statuto di indolente giovane annoiata. E forse anche noiosa.
Si è finalmente integrata tra i suoi contemporanei, ora è una cittadina del terzo millennio.
Solo che un po’ di noia, a quel punto, l’ha trasferita anche al suo lettore.
Elocutio
Il romanzo è scritto in maniera forzata, nervosa, scissa, spesso gergale e untuosa.
Ogni tanto l’autrice si infila in alcune isotopie, nelle quali si compiace, ma da cui non riesce più a uscire, finendo nella trappola dell’intratestualità.
Come quando inizia a fare uso e abuso di metafore tratte dall’iconografia medioevale: “siamo castelli arroccati, desideriamo un esercito che ci difenda, cerchiamo qualcuno che presidi la fortezza”.
E, poco più oltre: “che passo ha la gente ricca se non quello dei bardi e dei cavalieri e dei soldati”.
Non proprio un capolavoro di originalità letteraria.
Oppure quando tenta di costruire improbabili meta-sinestesie, e pseudometonimie: “le mura della casa rimbombano di incomprensioni e corpi compressi, di esigenze e fallimenti, di seni che non sono cresciuti e cellulite che è spuntata all’attaccatura delle cosce” (passi per la cellulite, confesso che pur sforzandomi, non riesco a comprendere come “un seno che non sia cresciuto” possa far “rimbombare” un muro).
Ogni tanto la ricerca per l’icasticità a tutti i costi produce involontari capolavori di banalità, come quando afferma che “il traffico pare defluire al modo del sangue nelle arterie migliori” (dimenticando che l’abbinamento strada-arteria è ormai acquisita anche da quel poetico prontuario di immagini che è codice della strada).
Ma il cliché non sembra un problema per l’autrice, che pare addirittura ricercarlo, andando a ravanare nell’immaginario folcloristico della sua memoria fonetica. C’è un capitolo che intitolato come una canzone di Malika Ayanne (D’Estate muoio un po’, p. 115), c’è un altro passaggio in cui riporta le parole di un brano di Gianna Nannini (“Vado punto e a capo (…) ma è la tenerezza che ci fa paura”, pag. 220), forse per rendere omaggio alle proprie referenze.
Lo stile è costruito da frasi spesso scisse, e talvolta in maniera quasi distopica, dando un senso di regionalismo lessicale che pervade un po’ tutto il testo “quasi che la nostra invece di famiglia sia la garanzia di un prodotto di qualità” (p. 105); l’uso abnorme del “che” preposizionale talvolta lascia interdetti: “che indossiamo i nostri vestiti borghesi, andiamo alla scuola, ci alziamo all’ora giusta, diventiamo professori?” (p. 162). Giusto, che – niente niente succede così?
Un altra caratteristica della sua prosa è l’accumulazione; la costruzione di improvvisi elenchi di pensieri (talvolta di pensierini) fatti erompere all’improvviso anche per diverse pagine, spesso accostando sintagmaticamente elementi di un paesaggio inesistente, ma funzionale a incendiare, qui e lì, le stoppie di una prateria vuota.
E naturalmente all’elenco, spesso, si accompagnano richiami anaforici, periodi brevi, sintassi franta, giustapposizioni, iperboli improvvide (“l’hanno dovuto operare alla testa, aveva sempre male e un giorno qualcosa dentro doveva essere scoppiata, come i popcorn, come la cinema”, pag. 119).
E un terrore, non sempre ingiustificato, per l’ipotassi.
Sembrerebbero le caratteristiche di un romanzo-verità, di un libro-testimonianza, di una narrativa-dell’-impegno, così in voga nei nostri tempi. Ma l’impegno non pare diretto a dare testimonianza di nessuna verità, se non quella di emulare una realtà inesistente, un immaginario scontato, un contenuto vuoto, una consistenza gelatinosa ed impalpabile. Il comune luogo dove trovano però convegno, talvolta, in fondo, tutti gli elementi di un successo editoriale.
Voto: 5
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