Dopo sei indagini che hanno portato il commissario Luigi Gelsomino a misurarsi con i lati più ambigui dell’animo umano, il fotografo e scrittore Marco Lugli è tornato con “Martiri delle sabbie” (Indomitus Publishing), un thriller che scava nella superficie dorata del Salento per rivelarne le crepe profonde. Qui il mistero si intreccia con l’attualità: il lavoro nero, la corruzione diffusa, l’ambientalismo spinto fino alla violenza.
Marco, potremmo dire che In “Martiri delle sabbie” il male non nasce dal crimine, ma spesso da un eccesso di idealismo?
Non so se il male nasca da un eccesso di idealismo. Forse è così. Di sicuro il male può nascondersi dietro un ideale, il che è pure peggio. In “Martiri delle sabbie” è questa seconda ipotesi a essere presa in considerazione dagli inquirenti che indagano sugli strani suicidi che riguardano attivisti green.
Ti interessa più raccontare la colpa o la convinzione di avere ragione?
La convinzione di avere ragione è raccontata fin troppo da tutti noi, ormai, sulle piattaforme social e negli approfondimenti politici televisivi. Non esiste più il confronto, soltanto lo scontro di persone che si ritengono in possesso di verità assolute. La colpa è qualcosa molto più interessante da raccontare.
La spiaggia, il mare, il vento: il Salento nel romanzo è un personaggio vivo, mutevole, quasi inquieto. Ti capita di scrivere partendo dai luoghi, come se fossero loro a dettare la storia?
Mi è capitato in “Come la neve nessun rumore” dove è la montagna che ha dettato il ritmo e il mood del romanzo. Negli altri episodi della serie di Gelsomino, il territorio è più un acceleratore e catalizzatore di pensieri, una sorta di partner del commissario che lo aiuta a riflettere.
C’è un altro luogo di cui ti piacerebbe iniziare a scrivere?
L’altro luogo del mio cuore sono Le Dolomiti. Ci ho ambientato un romanzo e probabilmente lo farò di nuovo prossimamente.
Ti senti più fotografo, investigatore o testimone?
Decisamente fotografo. Anche quando scrivo lavoro per immagini e scene cinematografiche.
Il commissario Gelsomino è un uomo onesto, che non si adatta, che dubita. Credi che oggi ci sia ancora spazio per personaggi “non concilianti”, in una società che tende a semplificare tutto?
Non sono del tutto d’accordo sull’impostazione della domanda. In quanto persona che dubita, Gelsomino è anche conciliante, nel senso che ammette di poter sbagliare e di domandare scusa. Di questo tipo di uomini, in grado di comprendere i propri limiti e di analizzare le proprie colpe, credo se ne senta molto la mancanza.
Dopo sette romanzi, il tuo universo narrativo è diventato riconoscibile e coerente. Hai mai pensato a un momento in cui Gelsomino potrà “andare in pensione”?
Lo penso alla fine di ogni romanzo, quando ho la tentazione di farlo morire. Poi non lo faccio mai. Perché so che prima o poi mi torna la voglia di scrivere un altro pezzo della sua vita.




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