Maria Luisa Minarelli: “Il delitto smuove le passioni, illumina ambienti, aiuta a descrivere una storia”

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Con “L’arciprete di Porta Castiglione (Indomitus Publishing), uscito il 2 ottobre scorso, Maria Luisa Minarelli torna a immergere i lettori nell’atmosfera magnetica e inquieta della Bologna anni Trenta.

 

 

È il quarto capitolo della serie “I misteri di Bologna, un noir storico in cui la tensione narrativa si intreccia con la ricostruzione accurata di un’epoca segnata dalle ombre del regime fascista e dalle prime leggi razziali. Al centro, ancora una volta, il maresciallo Vittorio Righi, chiamato a indagare sulla scomparsa di donne sole e benestanti, un caso che si insinua tra vicoli, sacrestie e sotterranei segreti.

 

Autrice amatissima e tradotta all’estero, Minarelli conferma la sua abilità nel dare vita a trame avvincenti e personaggi vibranti, illuminando il presente attraverso lo sguardo sul passato. In questa intervista, ci accompagna dietro le quinte del romanzo, raccontando il lavoro di documentazione, le sfide narrative e l’urgenza di affrontare un tema drammaticamente attuale come i femminicidi.

 

Il maresciallo Vittorio Righi torna in una Bologna del 1938 attraversata da ombre politiche e morali. Che cosa l’ha affascinata di più nel ricostruire questo momento storico e quali elementi ha voluto mettere maggiormente in luce?

La seconda metà del 1938 è un periodo estremamente indicativo dal punto di vista della ricostruzione storica dell’era fascista. Se fino a quel momento il regime era riuscito a trascinarsi dietro più o meno convinta la maggioranza degli italiani, ora accadono due fatti che inducono anche i più ottusi al pensiero critico. Da un lato si profila la possibilità di una guerra, al seguito della Germania, con la quale i rapporti politici si fanno sempre più stretti. Se gli italiani avevano inneggiato all’Impero e alle conquiste africane, se i giovani si erano entusiasmati nei saggi ginnici e nelle esercitazioni militari, non per questo si erano trasformati in un popolo guerrafondaio. Un conto era andare volontari in Etiopia o in Spagna, un altro avere la guerra in casa. I patti di Monaco lo avevano dimostrato. Mussolini, che a settembre aveva scongiurato la guerra, fu accolto in Italia come un trionfatore, con la gente ai lati dei binari che lo benediva, con suo grande sconcerto nel momento in cui si rendeva conto che la maschia bellicosità degli italiani era una sua illusione. L’altro avvenimento furono le leggi razziali contro gli ebrei. Se ci furono purtroppo molti che ne approfittarono, la maggioranza rimase sconcertata e amareggiata nel vedere amici, vicini, conoscenti relegati a cittadini di seconda classe, privati di diritti, senza nessuna colpa. Ecco, nel mio romanzo ho cercato di mostrare proprio come questo sconcerto portò alla formazione dei primi gruppi di resistenza al regime.

 

Il tema dei femminicidi, pur collocato negli anni Trenta, risuona in modo drammatico anche nel presente. In che modo ha affrontato questo nodo sociale nel romanzo e quali riflessioni spera che susciti nei lettori?

Il modo in cui ho affrontato il tema dei femminicidi risente molto del periodo storico. Mi spiego. Oggi la maggior parte dei delitti è originata dal rifiuto da parte dell’uomo dell’abbandono della compagna. Questo negli anni Trenta non avveniva perché in genere le donne erano costrette a subire soprusi e violenze non avendo alcuna alternativa fuori casa. Però i femminicidi c’erano, purtroppo, sia pure con motivazioni diverse dal timore dell’abbandono. Le storie del mio libro sono ispirate a fatti realmente accaduti. Ora io non posso anticipare la storia, né voglio generalizzare. Posso però affermare che a spingere a compiere un delitto sono spesso motivi economici. E ancora una volta, le vittime sono le donne, percepite come più deboli. Di fronte a questa considerazione, come reagire? Sì, ottima l’educazione sentimentale nelle scuole, necessaria l’attenzione delle istituzioni alle situazioni critiche. Ma soprattutto le donne devono impadronirsi degli strumenti sociali e legali per sapersi difendere, per capire in anticipo se esiste una situazione di pericolo e sapere a chi rivolgersi per scongiurarla in tempo. Non è facile, quando ci sono di mezzo i sentimenti…

 

Nel romanzo alterna l’indagine del maresciallo alla preparazione dei delitti. Cosa l’ha spinta a mostrare da vicino la mente e i gesti dell’assassino?

Ho scelto fin dall’inizio di scrivere romanzi gialli, nei quali domina il momento dell’indagine e il colpevole si scopre solo alla fine. Ma nei miei sogni c’è sempre stato il desiderio di descrivere il criminale in azione, cioè la parte noir della storia. La struttura de L’Arciprete mi ha dato modo finalmente di seguire passo passo il compimento del crimine. Ne ho approfittato e sono riuscita in tal modo anche ad aumentare la tensione della narrazione.

 

La Bologna che descrive è fatta di vicoli, sacrestie, palazzi nobiliari e sotterranei segreti. Quale luogo, tra quelli che ha ricostruito o visitato, rappresenta per lei il vero cuore misterioso della città?

Nell’immediato dopoguerra Bologna, colpita da disastrosi bombardamenti, ha avuto la fortuna di godere di un piano di ristrutturazione che ha ovviamente colmato i vuoti, ma non ha alterato i quartieri popolari centrali che erano rimasti intatti. Tuttora, chi passeggia sotto i portici di via Barberia o di via Nosadella, chi si infila nei vicoli tra via Clavature e via Rizzoli, nel tripudio dei celebri negozi di gastronomia, chi passeggia per le stradine del ghetto, può tranquillamente pensare di essere negli anni Trenta, negli angoli oscuri in cui può succedere di tutto. Se poi percorre Strada Maggiore, sotto le travature medievali di palazzo Isolani, potrebbe essere nel Medioevo. Questo è il fascino di Bologna. Ma se cerchiamo nel Pratello la magia del quartiere popolare trasgressivo, purtroppo, quella magia è scomparsa. Le abitazioni sono rimaste, ma non c’è più la vita di quartiere che caratterizzava la zona.

 

Nella sua lunga esperienza di autrice di gialli storici, dal ciclo veneziano di Marco Pisani alla serie dei “Misteri di Bologna”, cosa è cambiato nel suo modo di raccontare il crimine e l’indagine? E che cosa, invece, considera la sua firma stilistica irrinunciabile?

Mi è capitato di recente di rileggere alcune dei miei primi romanzi, e direi che ben poco è cambiato nel mio modo si affrontare una storia. Ma c’è una cifra stilistica che si ripete libro dopo libro a cui non saprei rinunciare. Si tratta della ricostruzione dell’ambiente, ambiente sempre diverso a seconda della storia. Non potrei far interagire tra loro i miei personaggi senza un contorno di case, strade, botteghe, figure minori, movimento. Molti scrittori lo fanno, e scrivono ottimi libri, ma per me è essenziale che il lettore viva dentro la storia come ci vivo io nel momento in cui la scrivo. E per questo servono personaggi, suoni, odori, colori. Non è facile ricostruire gli ambienti del passato, anzi. Lo studio della storia del quotidiano e dei modi di vivere della gente comune è scienza relativamente recente, iniziata in Francia degli studiosi della rivista Annales, come Marc Bloch, Fernand Braudel e altri. Però quando si arriva a padroneggiare un ambiente o uno stile di vita è una soddisfazione impagabile, e i lettori se ne accorgono.

 

Indomitus Publishing ha deciso, peraltro, di ripubblicare l’intera serie veneziana con Marco Pisani. In che modo convivono dentro di lei le due anime narrative, quella bolognese e quella veneziana e, per concludere, cosa potranno aspettarsi lettori e lettrici da questa serie?

Ho incominciato con la serie veneziana. Quello era il sogno, l’apoteosi di una città che in un secolo come il Settecento che si apriva appena alla voce della ragione, contava già conquiste consolidate, come la separazione tra Chiesa e Stato e la possibilità per le donne di gestire il proprio denaro. Il tutto in una cornice di bellezza ineguagliabile, ma già sull’orlo del declino, in equilibrio instabile come le onde da cui emerge. Come non farsi rapire da tanto fascino? Ma nel mio curriculum sono presenti anche seri studi di storia politica. Con la serie di Bologna, pur scegliendo una location affascinante e che amo, ho voluto indagare su un periodo così controverso come quello del regime fascista che mi ha dato modo di costruire attraverso vari personaggi i diversi modi con i quali gli italiani dell’epoca si rapportavano al regime e in seguito se ne sono allontanati. Perché attraverso romanzi gialli? Perché, come scrivo sempre, il delitto smuove le passioni, illumina ambienti, aiuta a descrivere una storia. Per chi desidera un’anticipazione: ho in corso la scrittura di Ombre veneziane, ovviamente della serie di Venezia, ambientato nel mondo delle cortigiane di alto bordo. Una vicenda molto originale.

Chi sono

Virginia, 32 anni, editor, consulente editoriale e mamma di Gemma e Tessa. Credo fermamente nella bibliodiversità, nelle realtà editoriali indipendenti e nella potenza comunicativa degli albi illustrati.

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