Cari lettori, oggi la nostra Lina Morselli ci regala una recensione molto toccante, profonda e suggestiva: “Instanbul Instanbul” di Burhan Sȍnmez, edito Nottetempo Edizioni.
Questo non è un libro facile, né ameno. Di sicuro è un libro di verità, a partire dagli eventi che l’hanno reso necessario: i violenti disordini del 1996 a Istanbul, tra la polizia di un governo votato al rigore e al conservatorismo più retrogrado, e i manifestanti, in parte espressione di una sinistra progressista (a tratti radicale) e in parte appartenenti al movimento di liberazione del Kurdistan.
L’AUTORE
L’autore, di lingua kurda, nato ad Ankara, all’epoca trentenne, ha partecipato a quei movimenti, è stato catturato e ha subìto torture in carcere. Dopo la sua liberazione è stato curato in Inghilterra, e tuttora divide la sua vita fra Cambridge e la Turchia, vive a Istanbul e insegna Letteratura all’Università di Ankara. E’ anche avvocato, specializzato in diritti umani. Attualmente è membro del board nel PEN International. Questo suo libro non è una vera e propria cronaca della sua prigionia, ma non sarebbe stato possibile senza il suo terribile vissuto. Diventa così testimonianza, sia di un evento storico, sia di una sofferenza e di un obbrobrio, quello della tortura, che ancora, nel mondo, macchia di vergogna l’umanità.
LA TRAMA
Tutto si svolge in una cella, pensata per una persona, ma in realtà abitata da quattro uomini, gelida e buia. Si seguono dieci giorni della loro vita lì dentro, tanti quanti sono quelli narrati del Decamerone di Boccaccio. E come nel libro del 1300 i protagonisti narrano storie: allora si doveva esorcizzare la paura della peste, ora si deve sopravvivere all’orrore e ad un dolore fisico oltre ogni umana sopportazione. A turno, quindi, ognuno compare come protagonista dei vari capitoli, ora ripercorrendo la storia del proprio arresto, ora rivivendo momenti della vita libera, ora riflettendo sul presente. Ognuno di loro, proprio come accade in Boccaccio, racconta leggende, storie, accadimenti, spesso con significati comici o sarcastici, arrivando persino a ridere delle storie più buffe. A tratti, dal corridoio o dalla cella accanto, compare anche una donna, che condivide lo stesso destino.
I PERSONAGGI
Lo Studente Demirtay è il più giovane, e gli fa da controcanto l’anziano Kȕheylan, al quale si unisce la voce del Dottore, finito lì per salvare la vita al figlio. Tre uomini fra loro diversi, che vedono in faccia la morte ogni giorno, eppure capaci di riflessioni che nella loro amarezza si sorreggono con la forza della consapevolezza, di un coraggio che riappare a dispetto di tutto. Il vero controcanto è di Kamo il barbiere, uomo coltissimo, abile artigiano di forbici e spazzola, innamorato di una donna che lo lascia per la resistenza armata, e preda di un disincanto che non lascia speranza. E’ lui che urla ai suoi torturatori che proprio loro sono i veri uomini, non lui. Poiché sono rimasti al servizio del Male, da quando accettarono di mangiare il frutto della conoscenza. Da allora annientano natura ed esseri viventi, in attesa di uccidere anche Dio. Nella tortura, nell’essere come bestie, continuano a fare ciò che l’uomo fa da sempre. Eppure anche Kamo è un uomo, e disperato si domanda come potrebbe fuggire da se stesso.
ISTANBUL SOPRA E SOTTO
Istanbul abbraccia ogni vissuto, diventa oggetto dei pensieri, arriva a sdoppiarsi realmente e metaforicamente. La prigione è nei sotterranei di un edificio, quindi i protagonisti vivono sottoterra, domandandosi mille volte se in superficie la gente sia consapevole di quanto accade sotto. I pensieri diventano allora concreti: Istanbul è preda della doppiezza, della falsità, dell’impossibilità a sfuggire al proprio destino, e nello stesso tempo diventa emblema della bellezza, talmente piena da diventare salvifica. E’ grazie a quella bellezza, alla speranza che la costituisce, che i prigionieri inventano una realtà parallela, la interpretano come in un folle psicodramma: fingono di affacciarsi al ponte, di ritrovarsi su un terrazzo a bere insieme, fingono di accendersi una sigaretta, fingono di mangiare e di gustare vari cibi, fingono la vita di sopra. Fino a che sentono la porta della cella che cigola, una guardia preleva uno di loro, e tutto torna sotto, dove non si sa se chi è andato tornerà. Solo nelle pagine finali si aggiungerà un altro rumore: un susseguirsi di spari, che il vecchio Kȕheylan, rimasto solo nella cella, cercherà di interpretare, cedendo alla speranza di una rivolta, col mondo di sopra che viene a liberare il mondo di sotto.
UNA NARAZIONE COME UN PENDOLO
La narrazione è serrata e l’affabulazione ha qualcosa di magnetico: le riflessioni, gli scambi letteralmente filosofici fra i protagonisti, i loro ricordi e i loro racconti oscillano tra una condizione di morte e la vita che non si arrende. Lo sguardo stesso del lettore si sposta dall’alto in basso, dalle strade della città ai suoi sotterranei, come se seguisse il moto di un pendolo. Con sorpresa si nota solo alla fine che non ci sono preghiere, invocazioni a Dio, non c’è alcun cenno di trascendenza o di salvezza nell’altra vita. Questa è una storia laica, disincantata, aggrappata come il vischio al sapere, all’arte, alla bellezza: in loro sta il solo mezzo di redenzione, persino sotto tortura. Per questo è una storia che riesce ad uscire dai confini di Istanbul, per diventare universale.
(RECENSIONE DI LINA MORSELLI)
0 commenti