Mario Pieri, scrittore fiorentino di nascita e romano d’adozione, è tornato con il quarto capitolo della fortunata serie “I delitti degli anni ruggenti”, firmata con lo pseudonimo Tommaso Picasso.

Nel romanzo “Ho pianto tanto a Tripoli” (Youcanprint), il giornalista Giovan Battista Picasso si ritrova coinvolto in un nuovo intricato caso nella Roma del 1932.
Durante una visita a un vecchio amico conosciuto anni prima a Tripoli, allora prospera colonia italiana, Picasso si imbatte in un delitto inatteso: l’uomo viene trovato morto nella sua biblioteca.
Il commissario Valeri, fidato alleato del cronista, indaga su tre sospetti, un furto misterioso e su un enigma che pare sfidare ogni logica.
Mentre il caso si infittisce, Picasso affronta anche i turbamenti del cuore: il pensiero corre a Giulia, attrice brillante e affascinante, legata a una recente vicenda drammatica che li ha uniti.
Tra ricordi coloniali, passioni irrisolte e crimini da svelare, un nuovo tassello del giallo storico italiano prende forma.
Mario, il titolo “Ho pianto tanto a Tripoli” evoca in me malinconia e colpa. È la frase di un personaggio? Che significato assume nel corso della storia?
In effetti, nel libro sono presenti sia la malinconia sia il concetto di colpa, che affiora più volte in relazione ai sospettati. Per il titolo mi sono ispirato al testo di una canzone (“Tripoli 1969”) che vede fra gli autori Paolo Conte, un artista che indugia spesso nei ricordi, il più delle volte agrodolci. Per questo considero le sue musiche un ottimo accompagnamento alla lettura dei miei “gialli”. La frase viene pronunciata dal protagonista Giovan Battista Picasso mentre ripensa al periodo vissuto nella colonia italiana. Ciò avviene all’inizio della storia e troverà la sua “quadratura del cerchio” alla fine della stessa, ma l’emozione rimarrà viva nel corso di tutta la narrazione; proprio come una melodia di sottofondo.
Il romanzo è ambientato nel 1932, pieno regime fascista: quanto influisce il clima politico sulle vicende dei protagonisti e sul modo di indagare?
Rispetto ad altri miei romanzi, in questo c’è una minore influenza del clima politico italiano sulle vicende. Nei precedenti “Omnia Romae cum pretio – A Roma tutto ha un prezzo” e “L’occhio del Duce”, il regime fascista e i suoi personaggi (sia quelli realmente esistiti sia quelli da me immaginati) fanno parte integrante della trama. Nel primo caso, mi riferisco in particolare alle modifiche urbanistiche che rivoluzionarono l’aspetto di Roma e che hanno un peso nella vicenda; nel secondo, alle complesse relazioni dell’Italia di Mussolini con altre nazioni. Devo comunque precisare che in “Ho pianto tanto a Tripoli” il ruolo del Regno d’Italia nella Grande Guerra, prima, e nelle questioni coloniali, poi, sono più che una mera ambientazione “esotica”: piuttosto sono un elemento del meccanismo. A questo aggiungo che ho voluto ancora una volta approfittare della finzione per evidenziare alcuni aspetti sociali di quel periodo, su tutti il ruolo della donna come era visto dal fascismo, in contrasto con le battaglie per l’emancipazione femminile molto vive nei primi due decenni del Novecento.
Com’è stata costruita l’indagine: è più logica e deduttiva o emotiva e psicologica?
Come sempre nei miei romanzi della serie sono presenti entrambi gli elementi, ossia la logica e la sensibilità, anche se la proporzione tra i due varia nelle diverse avventure. Del resto, GB Picasso è guidato dall’emotività e soprattutto da un’impulsività che rasenta l’incoscienza, tipica di un uomo che ha vissuto le atrocità della guerra quando era poco più che un ragazzo e che, forse, aspira ancora a vivere una gioventù non del tutto goduta. Per contro, il commissario Antonio Valeri basa le sue indagini sul ragionamento e sulla scienza, salvo poi utilizzare metodi psicologici per scavare nel passato delle vittime e dei sospettati, fino a smascherarli. C’è poi Giulia, una ragazza moderna e intelligente, capace di evidenziare aspetti sentimentali che il giornalista e il commissario, essendo uomini, esprimono con difficoltà; a sua volta, lei deve fare i conti con le proprie aspirazioni personali e lavorative, il che comunque non le impedisce di svolgere un ruolo importante anche nella risoluzione del caso.
Hai dichiarato il desiderio di ogni giallista di misurarsi con l’enigma “della camera chiusa”. Quali autori o letture ti hanno ispirato?
È sufficiente cercare in rete l’elenco degli autori di opere che hanno a che vedere con un rompicapo di questo tipo per rendersi conto di come esso sia una sorta di “passaggio obbligato” per molti giallisti. Ho letto molti di loro e mi limito a nominare Edgar Allan Poe, ma solo perché l’ho volutamente menzionato nel mio ultimo libro per un motivo che sarà chiaro a chi lo leggerà. Se devo essere sincero, l’idea di cimentarmi con questo enigma mi è venuta dopo aver letto “I delitti della camera chiusa” di Rino Cammilleri; un libro che, pur non avendomi impressionato particolarmente, rappresenta un bell’omaggio al genere e mi ha dato uno stimolo. Io e la “mia” camera chiusa siamo gli ultimi arrivati, perciò ci siamo voluti sottoporre a questa sorta di esame di ammissione: starà al lettore dare un giudizio.
In chiusura, cosa può affascinare oggi i lettori contemporanei in una storia ambientata tra Tripoli e Roma negli anni Trenta?
Vorrei che i lettori si immergessero negli ambienti di un secolo fa da me disegnati e che si lasciassero guidare da essi. In modo da comprendere che la Libia coloniale e l’Italia del Ventennio non sono palcoscenici, ma veri coprotagonisti delle vicende, come ho accennato poc’anzi. Ho scelto di ambientare questa serie di gialli nel passato proprio perché non volevo fare a meno del passato. Attraverso le indagini sui sospettati, e su altri personaggi di ogni storia, appare un mondo che forse il lettore di oggi non conosce del tutto e la cui scoperta può risultare affascinante. Faccio alcuni esempi: all’epoca, la polizia non aveva a disposizione automobili di servizio, perciò i miei personaggi devono spesso fare ricorso alle carrozze a cavalli adibite a servizio pubblico o, nella migliore delle ipotesi, a uno dei pochi taxi esistenti. Il telefono si stava diffondendo velocemente, ma non tutte le abitazioni private ne erano dotate e, in sua assenza, ci si doveva recare a un posto telefonico pubblico. Il cinema era uno dei pochi passatempi di massa, anche perché sostenuto dal regime per scopi propagandistici. In definitiva, questi e altri elementi impongono a ogni storia un andamento più lento di quello che sarebbe se venisse ambientata ai giorni nostri, ma non per questo meno ricco di tensione; un diverso “tempo musicale” che influenza l’indagine e l’intera vicenda.
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