La nostra inchiesta, oggi, avrà a oggetto i libri, e il loro mondo.
Vedremo di rispondere ad alcune domande che da tempo ci assillano senza trovare mai risposte chiare.
Qual è lo stato dell’arte del mercato editoriale? Quanti libri si pubblicano e quanti vendono ogni anno? E chi li stampa, per lo più, e dove si vendono? Chi ne trae i maggiori utili, e in che misura? Quanto rende scrivere libri, quante copie vendono i nostri bestsellers tricolore?
Quante domande, tante curiosità, troppe aspettative e poche risposte chiare, anzi, quasi nessuna.
Ogni resoconto sull’argomento sembra sempre un florilegio di percentuali altisonanti, di tabelle variopinte, di istogrammi criptici all’interno dei quali le informazioni ricercate, poi, finiscono per smarrirsi.
Comparando le realtà fotografate dalle statistiche sembra ogni volta di trovarsi di fronte a un fenomeno quantistico: ogni nuova rilevazione porta risultati sempre differenti, e possiamo star certi che alla successiva misurazione i dati cambino, si alterino, sfuggano.
Vediamo, quindi, di fermarne alcuni.
L’occasione (e che occasione!) è fornita da due importanti reportage realizzati da due soggetti altamente qualificati, e pubblicati nei primissimi mesi del 2021: uno presentato dall’Associazione Italiana Editori (Aie: “Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2020”); un altro dall’Istituto Italiano di Statistica (Istat: “Produzione e lettura di libri in Italia”).
Di questo dobbiamo parlare. Nel mare di cifre, categorie, torte e colonnine relative alle vendite del settore librario sembra esserci qualcosa di sfuggente, di ambiguo, di contraddittorio che aleggia tra numeri, mai così neutri e oggettivi come si presentano.
Vediamo perché.
Innanzitutto dobbiamo premettere alla nostra indagine un enorme asterisco.
L’anno oggetto di rilievo, per entrambi i lavori, è il 2019.
Gli studi che stiamo prendendo in rassegna, anche se pubblicati a fine gennaio 2021, prendono in esame l’andamento del mercato editoriale di due anni fa. L’anno appena trascorso non è stato oggetto di analisi complete, ma di rilevazioni parziali; e non appare dubitabile che l’impatto provocato dal flagello pandemico abbia stravolto tutti i connotati di questo comparto, modificandone, forse irreversibilmente, i rapporti fondamentali che le indagini attualmente disponibili, invece, descrivevano come acquisizioni consolidate.
Ad ogni modo: questo abbiamo.
Non appena saranno disponibili fonti ufficiali più complete e più aggiornate, non potremo che darne conto. Ma per il momento, le evidenze raccolte ritraggono il settore editoriale alla vigilia della pandemia.
Chiusa parentesi. Vediamo allora com’era il mondo dei libri nel 2019.
La cosa bella è che si sarebbe trattato di un anno che, a detta degli stessi editori, avrebbe prodotto un incredibile fatturato, dall’importo vertiginoso, da far piangere di gioia, urlare di soddisfazione, esplodere di entusiasmo. E soprattutto gonfiare il portafogli.
Se vediamo i fatturati, parliamo di circa 3 miliardi e 37 milioni di euro di incassi, ed una crescita complessiva del 3% dell’intero comparto. Numeri che hanno fatto parlare all’Aie di vero e proprio anno da record per l’editoria italiana; e vorrei ben vedere altrimenti!
Pur avendo il perduto il primato dell’industria editoriale, superato (ma di poco) soltanto da quello delle pay tv (complici, pare, i dati degli eventi sportivi), rimarrebbe comunque un dato di tutto rispetto.
Daje! Anzi, d’Aie!
Se qualcuno avesse voglia di azzardare un investimento, con questi volumi, verrebbe quasi la tentazione di farci un pensierino.
Ma è proprio così?
Vedremo, nel dettaglio, quanto questo dato possa (o non possa) essere considerato adeguato e sincero.
E vedremo, soprattutto, che ruolo abbiano giocato nell’anno in rassegna tutti gli attanti del nostro racconto.
Le parti in commedia che, qui, prenderemo in esame saranno sostanzialmente quattro: lettori, editori, librai e scrittori.
Non vogliamo sminuire il ruolo giocato in questo teatro da protagonisti apparentemente minori, come grafici, tipografi, addetti stampa, consulenti, correttori, etc. Ma dovevamo fare delle scelte. E abbiamo deciso di restringere il campo a questi quattro soggetti principali. Ma non escludiamo di poter riservare in futuro uno sguardo attento anche agli altri attori di queste sceneggiature.
Qui, il nostro obiettivo sarà quello di analizzare i dati disponibili suddividendoli in base a questi simbolici pilastri della filiera, ad iniziare dai lettori. Per poi passare agli editori, venditori, e infine agli autori (in cauda venenum, oppure dulcis in fundo, fate un po’ voi).
I quattro pilastri del monumentale edificio che regge tutto il nostro mondo.
Iniziamo coi primi.
Italiano, il magnifico lettore.
In Italia, dicono, si legge poco.
Teniamoci il luogo comune, uno dei tanti che accompagnerà questo viaggio. Facciamo finta di crederci, e mettiamo un nodo al fazzoletto: verificheremo in seguito se l’affermazione sia corretta, e cosa questo implichi.
Il punto è: quanto poco leggono gli italiani?
Le statistiche, in effetti, sono strane, e per certi versi cupe.
Ad anni alterni ci viene detto che gli italiani leggano poco e niente, per poi subito dopo annunciarci che, in realtà, il numero dei lettori stia aumentando. Librai con musi lunghi lamentano il calo degli avventori, eppure ogni anno, come licheni sui tronchi, spuntano nuove case editrici, e non mancano mai i servizi giornalistici a segnalare ogni volta una controtendenza che smentisca la tendenza precedente, per poi essere nuovamente controsmentita, in un altalenante quanto allucinatorio sussultare di dati. La cosa che lascia più sospetti, poi, è che non esiste praticamente personaggio pubblico, o di pubblica rilevanza, che non abbia pubblicato un libro.
Sembrerebbe un’inferenza: dove c’è fumo c’è fuoco, no?
Ma come stanno le cose?
L’Aie non aiuta molto, il suo rapporto dà statistiche settoriali, segmentarie, parcellizzate che talvolta non agevolano, forse, la comprensione adeguata del fenomeno. Dicono gli editori: “legge il 65% della popolazione 15-75 anni”. E nella nozione di lettura vengono inclusi anche gli ebook e gli audiolibri. Inoltre, viene precisato che questa fascia di popolazione comprenda 29,5 milioni di persone.
Sorge subito una perplessità: ma perché escludere gli infraquindicenni e gli ultrasettantacinquenni?
E soprattutto, che vuol dire “legge”? Legge un libro, ne legge dieci, ne legge cento?
Più precisa appare l’Istat.
Il numero dei lettori di libri, secondo i suoi rilievi, sarebbe il 40,% delle persone con 6 anni e più. In effetti, è più corretto iniziare a contare i lettori tra i soggetti che abbiano almeno imparato a leggere. Annota l’istituto: sono considerati lettori le persone di 6 anni e più che dichiarano di aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista, per motivi non strettamente scolastici o professionali.
C’è un dato che inquieta però, e non poco.
La curva dei lettori, secondo la fotografia dell’ISTAT è in pericolosa discesa. Il grafico evidenzia come il 2019 si ponga sulla parte discendente della parabola descritta dall’andamento dei rilievi. Anche se il resoconto parla di dato “stabile”, è innegabile che si ponga sul crinale di un declivio, se non proprio di un declino.
Eppure, partendo dal 2000 (quando la quota di lettori era del 38,6%), l’andamento è stato sempre crescente fino al 2010 (quando ha toccato il 46,8%), un apogeo raggiunto recuperando in media quasi un 0,8% all’anno. Ma poi il dato è decresciuto, grosso modo con la stessa percentuale, nei successivi nove anni.
Il vero e proprio annus horribilis è stato il 2012 quando, insieme al nostro spread, il numero dei lettori è letteralmente crollato. In quest’ultimo caso del 3% in un anno (cioè quasi 1,5 milioni di lettori in meno: un’ecatombe). Considerando il totale della popolazione degli ultra 14enni nel 2012 era di circa 50 milioni, un calo del genere significa ci sono almeno 400mila di persone in Italia che ogni anno preferiscano non aprire più libro.
Quindi, incrociando i dati sulle fasce d’età della nostra popolazione, che nel 2019 contava circa 57,37 milioni di soggetti di età superiore a 4 anni possiamo concludere che il numero dei soggetti che abbiano compulsato le pagine di un tomo nell’anno in rassegna siano stati circa 22,9 milioni (e cioè il 40%).
Ventitre milioni; il numero dei lettori in Italia sarebbe pari a quello dei follower di Chiara Ferragni (ma questa non è certamente un’inferenza).
In realtà, a ben vedere, il loro numero potrebbe essere ancora più ridotto (ci riferiamo ai lettori, quell’altro era solo un esempio) tenuto conto che la fascia di età da considerare dovrebbe essere quella con soggetti di età sopra di 6 anni, e non 4 (il fashion blogging, invece, non ha età).
Comparando i dati degli industriali e quelli dell’Istat già notiamo un primo dato inspiegabile: l’Istat prende in considerazione un campione più ampio (dai 6 anni in su) e registra 22,9 milioni di lettori; l’Aie prendendo una platea più ristretta (dai 15 al 74 anni) computa 29,5 milioni di lettori.
Mistero, o miracolo?
Ci sono 7,5 milioni di lettori di scarto; e ci sono dove non dovrebbero esserci.
Non sembra di leggere due indagini differenti su uno stesso campione, ma due rilievi fatti su due differenti nazioni!
Teniamo per buoni i rapporti, lo scarto di 7,5 milioni è pari, o addirittura superiore, all’intera popolazione di importanti stati europei come la Bulgaria, la Danimarca, la Norvegia, o l’Irlanda!
E non è poco.
A chi dobbiamo credere: quante persone sono arrivate a leggere tutti i capitoli fino alla fine, almeno una volta, da gennaio a dicembre, tra il Brennero e Lampedusa?
Abbiamo sette milioni di motivi e mezzo per continuare ad avere dei dubbi.
Ma il dato inquieta anche per un altro motivo.
Cosa significa: leggere almeno un libro all’anno?
Che sono molti di più coloro che non leggono nemmeno un libro all’anno.
Significa, infatti, che esiste una moltitudine biblica, un esercito rutilante, che oscilla tra i 34 e i 35 milioni di individui, che non ha mai incrociato le parole di un libro nell’intero periplo solare! Forse perché aveva le dita troppo impegnate a sfiorare, per sfogliare; a leggere troppi post, si finisce che non c’è più posto per le letture.
Non so voi, ma mi pare straniante il fatto che 35 milioni di individui non legga mai.
Mai.
E le truppe di questa schiera, come detto, ingrossano le fila al ritmo di quasi mezzo milione di nuovi adepti all’anno.
Un illetteratismo di ritorno?
Perché è questo che fa perplessi: sono tutte persone che hanno ricevuto un’educazione, cioè un’istruzione, e quindi un’iniziazione alla lettura attraverso la scuola.
Solo che più della metà di loro, un buon 60%, dopo questa esperienza pare non volerne più sapere di libri.
Fermiamoci un attimo.
Dovremmo desumere che la scuola sia una fabbrica di non lettori, dove si faccia di tutto per sterilizzare l’entusiasmo per i libri?
Un nostro autorevole intellettuale la pose proprio così. Ricordo le parole di Umberto Eco a proposito dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, uno dei suoi libri preferiti: se me l’avessero fatto leggere a scuola, disse, sarebbe stata un gran rottura di scatole (in calce vi riporto la fonte).
I professori e i maestri d’Italia hanno quindi questa grande responsabilità: la dissipazione del piacere per la lettura; la disaffezione per le pagine stampate; la dissoluzione dell’entusiasmo testuale.
Non è un giudizio di valore, è semplicemente un calcolo aritmetico: se uno degli obiettivi della nostra istruzione pubblica doveva essere la promozione del pensiero critico attraverso la comprensione dei libri, e quindi stimolarne la lettura, possiamo senza dubbio affermare: missione fallita!
Varrebbe la pena di abrogare anche testi scolastici, a questo punto. Forse, creando intorno al libro un alone di esoterismo, la scuola riuscirebbe a renderlo più interessante.
Ma a questo punto, perché non abrogare proprio la scuola?
E in effetti qualcuno, tempo fa, lo propose; ed era un altro grande intellettuale del nostro tempo.
Spiegava, anno dopo anno, mentre progredisce l’illusione dell’avanzamento pedagogico, in realtà gli studenti subiscono una degradazione delittuosa. Perché? Essenzialmente per due motivi: “primo, [perché in tal modo lo studente diventa] presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza” e quindi, a questo punto, “poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta” concludeva il nostro “è meglio abolirla in attesa di tempi migliori.”
Foto: Pier Paolo Pasolini (dall’archivio del Corriere della Sera)
Sono le parole che scrisse Pierpaolo Pasolini, in un articolo che apparse del 1975 sul Corriere della Sera, e che si concludeva con un drammatico appello: se abbiamo davvero a cuore la condizione antropologica di un popolo dovremmo pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive.
L’articolo si chiamava “Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo” (l’articolo è ancora disponibile in rete, in coda vi riporto il collegamento).
Ovviamente, nessuno si è mai sognato di bolire né l’una, né l’altra cosa.
Si disse che era solo una provocazione, ma Pasolini non ebbe modo di chiarire meglio il suo concetto, pochi giorni dopo fu selvaggiamente ucciso, e quella purtroppo non fu una provocazione.
Ad ogni modo, torniamo alle nostre impietose statistiche sui non lettori tricolore.
Quindi, se vogliamo mantenere la percentuale dell’ISTAT, dobbiamo riconoscere che c’è il 60% della nostra popolazione che dichiara con orgoglio durante le interviste di non aver mai letto un libro in via propria. E di non avvertire la cosa come disdicevole, al punto da non ritenere di nasconderla durante i sondaggi.
Evidentemente leggere non è di moda, fa cool (detto velocemente); evitare di leggere fa sentire a proprio agio, come indossare un paio leggins.
Nel 2018 l’Istat fu ancora più precisa: ci sarebbe una famiglia su dieci che dichiara di non avere nessun libro in casa, e il dato sarebbe costante da quasi un ventennio.
Però attenzione, tra quelli che hanno invece libri in casa, un terzo di loro non ne possiede più di 25; magari ne ha solo una decina, o probabilmente qualche paio, forse accumulato per sbaglio, come sostegno o rimpiazzo a frammenti di mobilia basculante.
Insomma, in Italia ci sono 34 milioni di soggetti che non leggono mai (nel 2015 erano 32 milioni), cui vanno aggiunti i 5 milioni di bambini in età pre scolare.
E non vogliamo neanche pensare a quanti dichiarano di leggere e non lo fanno, o leggono solo i libri autobiografici dei personaggi televisivi (non possiamo discriminarli, fanno statistica anche loro).
Ad ogni modo, tolti i soggetti orgogliosamente allergici al libro, quel che rimane è una platea 22,9 milioni di soggetti definibili come lettori.
Analizziamo, ora, nel dettaglio costoro.
L’espressione lettore è forse un po’ eccessiva.
Ricordiamo: si considerano lettori coloro che hanno letto almeno un libro all’anno per ragioni non scolastiche né lavorative, ricordano l’Istat e l’Aie.
Certo, leggere solo un libro può essere un po’ pochino: lo sanno anche gli editori, che in effetti suddividono l’utenza tra lettori “deboli” (cioè che non hanno superato i 3 libri in un anno), lettori “forti” (che sono arrivati a 12 libri).
E basta.
Informalmente, poi, si parla di lettori “fortissimi” (che avrebbero superato quella soglia psicologica di 1 libro al mese), e allo stesso tempo qualcuno parla di lettori “debolissimi” (che hanno letto appena 1 libro l’anno), però queste ultime due categorie non vengono censite.
Anche l’Istat ha adottato le stesse suddivisioni tra lettori forti e deboli, rilevando percentuali grossomodo analoghe.
Ebbene, i lettori “deboli” sarebbero il 44% del totale per l’Aie, quindi questa percentuale porterebbe a 12,8 milioni lettori basici; per l’Istat sarebbero il 44,3%, e il loro numero, quindi, sarebbe pari a 10,17 milioni.
Di contro, i lettori “forti” AIE sarebbero il 16% e quindi, circa 4,6 milioni; quelli Istat il 15,6%, quindi 3,58.
Coincidono le percentuali, non il totale numerico, ovviamente, avendo basi di partenza numeriche differenti.
Possiamo ragionevolmente convenire che lo zoccolo duro dei lettori stabili, sui quali è possibile ipotizzare un progetto editoriale, è compreso in una forchetta tra i 3,58 e i 4,6 milioni di soggetti.
I lettori forti sono poco più degli abitanti della Toscana, e poco meno di quelli dell’Emilia Romagna, giusto per avere un ordine di grandezza.
Però, emerge un altro dato curioso dalla comparazione di queste cifre.
Che ne è della residua parte di lettori che non rientrano né tra i lettori deboli, né tra quelli forti?
Parliamo di circa il 40% dei lettori complessivi, un numero che oscilla tra i 9,2 e gli 11,66 milioni di concittadini.
Qui emerge l’insufficienza e l’inadeguatezza della categorizzazione attualmente in uso, costruita su un dato “negativo” (cioè, come coloro che non superano un certo numero di libri letti in un anno) dei lettori “deboli” e “forti”.
Non sarebbe stato più lineare classificare i lettori per “scaglioni”?
E cioè, ci saremmo aspettati una graduatoria di questo tipo: categoria uno, nessun libro letto; categoria due, da 1 a 3 libri; categoria tre, da 3 a 12 libri; e poi: oltre 12 libri. Eccetera eccetera. Non sarebbe stato più adeguato? Almeno non avrebbe lasciato fuori nessuno.
Ma forse, non è stato fatto così perché il sistema a “scaglioni” suona antipatico, essendo lo stesso in uso per il calcolo delle imposte sui redditi.
Resta comunque evidente che l’attuale sistema di rilevamento lascia fuori classifica non pochi lettori (pari quasi agli abitanti della Lombardia, la più popolosa d’Italia) e cioè tanto quelli debolucci che faticano per arrivare a trovare la parola fine, quanto lettori pantagruelici, che magari arrivano a divorare uno o più libri a settimana.
Perché questi soggetti sono fuori da ogni categoria?
Resta, quindi, quest’ombra di mistero nelle vestigia di tutti questi dati.
E c’è poi un buco che nessuna statistica potrà mai colmare: il numero dei libri venduti coincide davvero con quello dei libri letti?
La domanda non è affatto oziosa.
Quante parole dormono nascoste tra le carte impilate sulle mensole della mia libreria, e non incroceranno mai le mie pupille.
Di contro, quanti libri abbiamo infisso, attingendoli da case parentali, da regali di amici, da vecchi acquisti fatti in tempore illo, da furtarelli innocenti, da appropriazioni indebite, da negoziazioni in bancarelle, da reperimenti di res nullius in qualche sala d’attesa?
Eppure, se leggi un libro usato sei fuori classifica, pur essendo lettore vieni incluso tra i non lettori, alteri il principio di identità e non contraddizione, perché non rientreresti nell’improvvida equazione che propongono le statistiche degli editori: libri letti uguale libri venduti.
Pensiamo ai libri prelevati dalle biblioteche.
Non è privo di pregio lo studio che la stessa Istat ha preannunciato di aver intrapreso nell’anno 2020, proprio prendendo ad oggetto i lettori delle biblioteche; sarà interessante osservarne l’esito.
Rassegniamoci, quindi, a questi mesti dati.
Aggravati da un’altra considerazione, che tira in ballo nuovamente l’istruzione pubblica italiana.
Nel 2013 l’OCSE ci ha dimostrato che gli italiani siano all’ultimo posto in Europa nella capacità di comprensione di un testo. Tre anni dopo, nel 2016, il linguista Tullio De Mauro affermò che il 70% degli italiani non capisca letteralmente quello che legge.
Rivolgersi a qualcuno dicendogli “hai capito?” oggi non sarebbe più un gesto di offensiva maleducazione, ma una forma di cautela, se non proprio di autotutela.
E la conferma all’apocalisse di De Mauro arrivò l’anno seguente: nel 2017 ben seicento professori universitari presentarono un disperato appello pubblico nel quale si lamentava il tempo perso a correggere gli errori linguistici (tantissimi) rispetto contenuti scientifici (scarsi) delle tesi di laurea delle nostre patrie facoltà.
Altro che sistema di istruzione, questa è una distruzione di sistema!
Non è affatto vero che i cervelli italiani che fuggono all’estero dopo l’università: la fuga sembra iniziare molto prima.
C’è da tener conto, ad colorandum, che l’appello dei seicento professori riguardava laureandi alle prese con la tesi, e non con i temini della quarta elementare.
Anche se, nel loro intervento, i docenti dicevano che tra i laureandi trovavano errori da terza elementare, al punto da mettere nero su bianco la grave grida: “gli studenti non sanno l’italiano.”
Ecco perché poi migrano all’estero?
Insomma, il dato è miserevole: gli italiani arrivati al termine del percorso scolastico scrivono male, leggono poco e faticano persino ad esprimersi oralmente.
Insomma, sembra che i ministri dell’istruzione degli ultimi cinquant’anni siano diventati tutti Pasoliniani de facto, e che, senza dire niente a nessuno, abbiano abrogato la scuola insieme all’università, data la massa di conclamati ignoranti che ogni anno vengono ornati con corone d’alloro.
Sono numeri da emergenza: dal 2013 in poi sarà stato fatto qualcosa, o no?
Certo, abbiamo dotato ogni studente di un telefono cellulare.
E il risultato è arrivato nel 2019 sempre da un rapporto Ocse: 19 studenti su 20 sono analfabeti funzionali, cioè non riescono a distinguere i fatti dalle opinioni quando leggono un testo non familiare. Ecco forse questo strano fiorire di negazionismi, terrapiattismi, rettilianesimi…
Siccome zucchero non guasta bevanda, l’Aie ha aggiunto una zolletta: afferma che in Italia solo il 24,8% della popolazione scolastica, praticamente uno studente su quattro, avrebbe “competenze adeguate” (anche se non specifica dove avrebbe preso il dato, e a cosa vorrebbe adeguare le competenze).
E il dato, sempre secondo il rapporto Aie, spiegherebbe le difficoltà che una gran parte della popolazione troverebbe nell’accedere al mercato del lavoro, e nel collegare tra loro informazioni che provengono da fonti e canali diversi, e nel comprendere il contenuto degli asserti.
Insomma, usciamo dalla scuola che siamo molto meno istruiti di quanto pensavamo di esserlo, e in più perdiamo l’attitudine alla lettura, anzi non vogliamo proprio saperne. E questo peggiorerebbe la nostra condizione economica, perché non ci aiuterebbe a trovare un’adeguata occupazione.
È strano, ascoltando i nostri politici in televisione, invece, eravamo convinti che per trovare un impiego sarebbe stato sufficiente giocare un po’ di più a calcetto, come disse una volta un nostro mitico ministro del lavoro. Me lo ricordo ancora, un uomo sublime; che forse diede poco all’economia, ma in compenso tantissimo al mondo dell’umorismo.
Insomma, senza letture, senza libri, senza testi, non c’è comprensione.
E senza comprensione si finisce fatalmente a capire pazzi per palazzi.
Siamo un popolo di santi, navigatori, eroi.
E di decodificatori aberranti.
E anche qui, Eco docet.
Editori e dittatori: quanto ci guadagnamo?
Abbiamo capito che è difficile sapere quanti lettori ci siano in Italia. Possiamo avere solo delle forbici, ma talmente grandi che all’interno potremmo metterci un’intera nazione.
E quindi, forse, ce ne faremmo ben poco.
Ripieghiamo allora su un altro quesito: quanti libri sono stati venduti in un anno in Italia?
Fingiamoci interessati a un investimento nel settore, in fondo è una forma come un’altra di what if.
Quindi vediamo di fare attenzione: parliamo di libri venduti, e non semplicemente di pubblicati.
Si tratta, naturalmente, anche in questo caso di valori differenti.
La ricerca si fa di colpo più difficile.
Perché già il numero dei pubblicati è tutt’altro che incontroverso. Secondo l’AIE, nel 2019 sarebbero stati pubblicati 78.279 titoli in cartaceo, nonché 48.763 e-book.
Non ci viene detto, però, quanti e-book abbiano avuto anche un “gemello” cartaceo nello stesso anno. Ci viene, però chiarito che la produzione in self publishing degli e-book sarebbe circa il 41,82% del loro totale, pari a circa 20.394 titoli.
Inutile tentare sommatorie, quindi.
Vediamo l’Istat, secondo cui i libri pubblicati nel 2019 sarebbero stati in totale 86.475.
Non sappiamo, però, se al suo interno siano inclusi anche gli e-book.
Teniamoci questo dubbio (che, come abbiamo visto, non è il solo), vediamo un altro corno del problema: quanti sono gli operatori del mercato, cioè: quanti editori esistono in Italia?
Qui la cosa diventa quasi comica: secondo l’Istat “le imprese e le istituzioni che svolgono come principale (attività nda) la pubblicazione di libri di almeno 5 pagine” sarebbero 1.706.
Nel numero sono inclusi anche gli editori inattivi, cioè che avrebbero temporaneamente sospeso l’attività editoriale, nonché aziende e istituzioni che stampano libri e pubblicazioni come attività secondaria e occasionale; esclusi gli editori che abbiano dichiarato di aver cessato l’attività, editori completamente inattivi e piattaforme di self publishing (che non sono propriamente delle forme di editoria, ma di autopubblicazione, o di autoproduzione).
Secondo l’Aie, invece, le case editrici che hanno inserito almeno un titolo nel corso dell’anno sarebbero, udite udite, ben 4.977.
Tanti sarebbero gli editori ad aver inserito nel 2019 almeno un titolo nel catalogo dei libri in commercio di IE-Informazioni editoriali
Ma com’è possibile?
Insomma, gli editori in Italia sono 1706 come dice l’Istat, oppure 4977 come dice l’Aie? Sembra di assistere a una di quelle controversie intorno al numero di partecipanti alle manifestazioni che si aprono ogni volta tra gli organizzatori e la questura.
Arid’aie!
Eppure è importante saperlo, visto che l’Aie stessa ci comunica che il mercato del libro avrebbe sviluppato un fatturato di 3,037 miliardi: ma fra quanti soggetti andrebbe divisa la torta, non ci vogliamo fare due calcoli?
E infatti, un conto è dividere le fette tra 1706 soggetti; un altro è farlo per un numero quasi triplo di competitori.
Ma anche in questo caso, leggendo bene i rapporti ci si accorge che fare divisioni in questo modo è profondamente sbagliato; certo il dolce fa gola, ma non è per tutti.
Vediamo perché.
Una parziale risposta si trova nel comunicato stampa dell’Aie (e non nel documento di sintesi) dove si può leggere un dato sconcertante: nel paragrafo denominato Quanto vale il mercato c’è scritto: “dal 27 settembre le vendite di libri fisici, saggi, e romanzi nelle librerie, grande distribuzione e store on line valgono 850 milioni, contro i 914 del corrispondente periodo precedente”.
Ed è curioso che il dato sia presente nel comunicato stampa e non nel rapporto di sintesi.
Ma come, l’incipit di quest’ultimo era: “il mercato si chiude in area positiva”, e invece nel comunicato si dice che il mercato del venduto vale meno dell’anno prima?
E che razza di “record” è questo?
Insomma, mettiamo che a settembre la vendita dei libri abbia sviluppato 850milioni di euro, a dicembre quanto abbiamo fatto? Difficile pensare che si sia arrivati a fare due miliardi di euro in un trimestre, è evidente che almeno 2/3 del fatturato dell’Aie non derivi dalla vendita dei libri; ma da cosa?
Tutte le ipotesi sono legittime, nessuna è autorizzata: certamente c’è una buona quota di fatturato che deriverà dalle royalties, e dalle negoziazioni sui diritti d’autore e, magari dalle quotazioni borsistiche.
E poi? Vogliamo sapere, diteci diteci, come si fanno gli altri due miliardi?
Stiamo parlando di una cifra che è pari all’utile netto realizzato da Amazon nello stesso anno!
Devono farci sapere: sono stati fatti con speculazioni edilizie, investimenti mobiliari, rendite da bitcoin, coproduzioni cinematografiche, pubblicità, contributi pubblici, donazioni, raccolte fondi, elemosine, opere pie, traffici di organi, cointeressenze in coltivazioni biologiche, compravendita di armi, cessione di crediti di imposta, scommesse di cavalli, sperimentazioni biotecnologiche, sofisticazioni alimentari, droghe sintetiche…
Non c’è praticamente limite per un whatiffer!
Ma insomma, se il mercato della vendita dei libri a settembre aveva prodotto solo 0,85 miliardi, per arrivare ai 3,037 finali bisogna ancora scalare una montagna di turnisi!
Nulla, non è dato di sapere; il dato avvolto nel segreto cabalistico.
Ahia, con l’Aie non ci si capisce niente!
Fatecelo sapere: come fanno i venditori di libri a fare la maggior parte dei soldi senza vendere libri?
Altrimenti, sappiatelo: vi esporrete necessariamente a tutte queste aberrazioni paranoidi (ma sono solo aberrazioni?).
Proviamo allora con un’altra domanda: quante copie “fisiche” di libri sono state vendute nel 2019?
Ebbene, curiosità: questo dato nel resoconto annuale dell’AIE non c’è.
Ma va.
Il rapporto di sintesi contiene le seguenti rubriche: “cresce il numero delle case editrici attive”, “rimane stabile il numero di titoli pubblicati”, “cresce la produzione in tutti i macrogeneri, si conferma il calo della produzione di titoli in e-book”, “cresce il mercato del libro” (ma qui ci sono solo percentuali e il famoso fatturato complessivo), “continua la crescita della vendita dei diritti”, “i prezzi dei libri ancora inferiori rispetto ai valori del 2010”, “legge il 65% della popolazione 15-75 anni”, “la lettura la sfida centrale dell’industria editoriale”, “il device preferito per la lettura in digitale è lo smartphone”, “i canali di acquisto: sempre più e-commerce e librerie di catena”.
Nessun paragrafo chiarisce la perplessità dell’investitore riluttante: se spendo cento euro per pubblicare un libro in Italia, quanto posso aspettarmi di ricavare dalle sue vendite?
Non ci arrendiamo, navigando in rete abbiamo appreso il dato attraverso le vive parole del presidente dell’Aie Ricardo Franco Levi, che in un convegno a Venezia, durante la giornata conclusiva del XXXVII Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri ha finalmente fornito alcune indicazioni preziose.
È interessante sapere che queste informazioni l’Aie le dà ai librai, ma non ai lettori, e infatti erano ben occultate in qualche link profondo in quello della stessa Scuola Mauri, e riportate sul Giornale della libreria, edito sempre dall’associazione.
Ebbene, il presidente Levi ha dichiarato che nel 2019 l’editoria italiana di “varia” (cioè: romanzi e saggi) ha venduto 90,1 milioni di copie, producendo da queste vendite 1,422 miliardi.
Quindi, da ottobre a dicembre sarebbero stati incassati quasi 600milioni di euro con la vendita dei libri; praticamente nell’ultimo trimestre avrebbero venduto l’85% di quanto fatto nei precedenti tre.
Ad ogni modo, Levi non ci dice nulla della “non varia” (cioè scolastica, grandi opere e multimediali); ma ormai dobbiamo un po’ saperci accontentare di convivere con dati parziali.
Forse sarebbe più comodo classificare i libri come all’estero, in fiction e non fiction. Ma questo è un altro discorso.
Levi, poi, aveva dato anche tante altre informazioni di dettaglio e collaterali: e cioè che vi sarebbe un aumento del 4,9% rispetto all’anno precedente, ma un calo significativo rispetto al 2011 (quando le vendite furono di 109 milioni di esemplari, per un fatturato di 1.432 miliardi).
Insomma, teniamoci stretta questa informazione: nel 2019 sono stati venduti 90,1 milioni di libri varia, realizzando 1,422 miliardi di ricavati.
E quante ne erano state offerte in vendita?
Qui il dato lo fornisce l’Istat: il valore assoluto delle copie stampate in Italia sarebbe di 192 milioni di copie. Dall’incrocio tra la tiratura stimata dall’Istat e le vendite indicate dall’Aie, emergerebbe che il 47% dei libri in commercio nel 2019 sia stato effettivamente venduto.
Ammazza, tanto. Anzi tantissimo!
Possiamo fidarci di questi incroci?
Mah, abbiamo qualche perplessità; ad ogni modo possiamo fare un paio d’altri conticini?
Rapportando i valori forniti solo dagli industriali, emerge che il ricavato medio di un libro di varia nel 2019 è stato di 16 euro, il fatturato medio di un’impresa editoriale sarebbe stato di € 285.714,00 ad azienda (se il numero degli editori fosse quello fornito dall’Aie), oppure di € 833.529,00 (se avesse ragione l’Istat).
Ah però, mica male!
Però questi facili aritmetismi sono tutti sbagliati, come vedremo tra poco.
Teniamo presente questo dato: magari si leggerà poco, in compenso, in Italia si pubblica tantissimo.
L’ha messo in evidenza un’interessante inchiesta sul Post del 2017 che si chiamava proprio “Perché in Italia si pubblicano così tanti libri” (dov’è però omesso il nome dell’autore, perché?).
L’articolo riportava anche i dati forniti da Gianfranco Zanoli, nel suo testo Libri, librai e lettori (Ponte alle Grazie, 1989); ebbene, appare interessante seguire l’evoluzione cronologica delle pubblicazioni librarie in Italia: nel 1919 furono pubblicate 5.390 novità; nel 1956 erano più o meno le stesse: 5.653 (cioè meno di 15 al giorno); nel 1970 salirono a 15.414; nel 1984 arrivarono a 21.063.
Poi, nel 1998 furono 56 mila (secondo un’intervista del 1999 a Tirature a Luciano Mauri, ex presidente di Messaggerie Libri) il più grande distributore italiano.
Secondo l’ultimo rapporto Istat, invece, nell’anno 2019 sarebbero state censite complessivamente 86.475 opere pubblicate, delle quali due terzi sarebbero delle novità (il 58,40%, quindi parliamo di 50.501 nuovi libri l’anno); cui vanno ad aggiungersi le nuove edizioni (l’8,5%, aggiungendo così altri 7.350), per far lievitare a 57.852 il numero delle opere pubblicate per la prima volta in lingua italiana nel 2019.
Non è chiaro se in questa conta siano stati inclusi gli e-book, ovvero i libri editi soltanto in formato elettronico, senza un corrispondente cartaceo.
Ad ogni modo, l’Istat annuncia in copertina del suo rapporto, che nel 2019 sono stati pubblicati in media 237 libri al giorno, quasi 1,3 per ogni mille abitanti.
E secondo gli editori?
Qui il calcolo è un po’ più complicato, perché si parla di 78.279 nuovi titoli (specificando: novità, e nuove edizioni varia, adulti e ragazzi), cui dovrebbero aggiungersi gli e-book, che sarebbero stati in totale 48.763, ma anche in questo caso, non è affatto chiaro comprendere quante edizioni esclusivamente elettroniche vi siano state. C’è però un dato chiaro: gli e-book in self publishing (quindi, senza alcun corrispondente cartaceo) sarebbero stati 20.394, e cioè il 41,8% del totale degli e-book.
E quindi, in tal caso, sommando i cartacei più gli autoprodotti elettronici siamo ad 98.673, che porterebbe a 270 il numero di libri ed ebook pubblicati ogni giorno.
Però l’Aie non comunica il numero delle ristampe pubblicate ogni anno, che, secondo l’Istat, sarebbero 1/3 del totale.
Insomma, anche in questo caso siamo di fronte ad un buco: nella marea di cifre e numeri forniti dai due istituti, mancano quelli che sembrerebbero più ovvi.
Dobbiamo accontentarci di approssimazioni, diciamo che il numero dei libri pubblicati ogni giorno in Italia oscilla tra i 237 censiti dall’Istat e dagli (almeno) 270 evincibili dall’Aie (406 aggiungendovi le ristampe calcolate secondo le proporzioni fatte dall’Istat).
Sono comunque numeri enormi.
Se qualcuno riuscisse a leggere un libro al giorno, ci metterebbe quasi un anno per leggere tutti i libri che vengono pubblicati in un solo giorno, anzi, forse un anno non sarebbe neanche sufficiente.
Insomma, non c’è solo il fatto che si legga poco, ma c’è anche il problema che c’è troppo da leggere.
E dietro questi dati, ammoniva il Post, talvolta si nascondono comportamenti fraudolenti di alcuni operatori intermediari, che si muovono tra l’orizzonte degli scrittori e quello dei librai, come metteva in luce l’inchiesta.
Pare che ci siano piccole case editrici che sopravvivano grazie ai castelletti bancari, e agli anticipi ricevuti dai distributori. Parliamone. L’inchiesta metteva in luce come molti distributori ricevano dagli editori le fatture in conto vendita che poi vengono immediatamente scontate in banca. E questa prassi sarebbe la “droga” del comparto. Cioè, non appena si stampa un libro il distributore si dichiara disponibile a riceverne, poniamo, 100 copie pagandole in anticipo, o ricevendone in anticipo la fattura, salvo conguaglio entro un paio di mesi. Sembra bellissimo: il distributore dà subito liquidità, o comunque consente di emettere una fattura che si può portare in banca, e farla scontare (cioè riceverne un’anticipazione, anche dell’80%). Ed entrano subito soldi, prima ancora di aver venduto una copia.
C’è quasi da farsi venire l’acquolina alla bocca. Facciamolo: pubblichiamo libri, tanto i distributori ci anticipano gli introiti delle vendite.
Sì, ma che succede, dopo, se non si vende nulla?
Bè, alla fine del periodi indicato dal distributore, chissà perché, accade che la maggior parte di quei libri rimanga invenduto (che ci vuoi fare, il 60% degli italiani non legge!).
E a quel punto il distributore ci presenta il conto. Insieme alla banca.
Se hai consegnato al distributore 100 copie e te ne restituisce 97 devi anche rettificare le fatture, emettere le note di credito, e restituire la differenza. In più devi anche porti il problema di avere un deposito per contenere l’invenduto, se non vuoi darlo al macero (che ha comunque un costo).
Alla fine dell’anno questo meccanismo diventa una tenaglia, dalla quale potresti pensare di uscirne in un unico modo: continuando a stampare libri.
Finché non arrivano i carabinieri, o le istanze di fallimento (e certe volte arrivano anche insieme).
Potrebbe essere questa la ragione per cui in Italia c’è così tanta offerta?
Prendiamo i dati Aie, che forse sono più attendibili dell’Istat quanto al numero di case editrici presenti nel territorio (del resto, se la cantano e se la contano da soli, no?).
Ebbene, abbiamo visto che secondo il censimento degli industriali, nel 2019 in Italia avrebbero agito 4977 case editrici attive, cioè con almeno un libro inserito nel catalogo ufficiale IE (informazioni editoriali).
Significa che in Italia c’è un imprenditore del libro ogni 12mila abitanti; più della metà dei quali, però (almeno 7.200) non saranno mai suoi clienti, e appena il 6% comprerà più di 3 copie.
Insomma, c’è un produttore di libri in ogni piccola città italiana; magari non c’è neanche una posto per comprarli, ma per farli non avremo difficoltà, c’è un editore in ogni borgo.
Tanta concorrenza?
Non avete visto proprio niente.
Qualcosina d’altro sugli editori, la dobbiamo dire.
Ci sono, infatti, editori ed Editori. Vediamo perché la maiuscola.
E torniamo all’Istat, per essere più obiettivi (non si può cantare e portare la croce, disse qualcuno).
Il 53% delle copie stampate in Italia proviene da case editrici piccolissime, classificate come “micro editori”; si tratta di realtà che immettono nel mercato al massimo 8 titoli in un anno, con una tiratura che in tutto non supera mai le 5.000 copie (nel massimo; ma la media è molto inferiore).
Ad ogni modo, una casa editrice su due, tra quelle censite in Italia dall’Istat, appartiene a questa categoria.
Accanto a loro ci sono i “piccoli editori”, che sono il 38,1% del totale; essi editano ogni anno non più di 43 opere, con una tiratura che non arriva mai a superare le 100.000 copie.
Micro e Piccoli pubblicano insieme il 40,01% dei titoli in commercio, ma la loro tiratura è solo l’8,7% del totale; cioè meno di 1 titolo su 10 tra quelli in commercio proviene da un piccolo o piccolissimo editore.
Su 192milioni di libri stampati nel 2019 (in valori assoluti, e non in titoli), solo 19,2 sarebbe editato da piccoli o piccolissimi editori, che, quindi, in media, ognuno dei loro titoli avrebbe una tiratura paria 556 copie per opera.
Al contrario, il 91,3% della tiratura nazionale è dominata dagli editori medi o grandi.
Chi sono ?
Gli “editori medi”, pari al 6,8% del totale, sono quelli che hanno pubblicato libri con una tiratura che poteva arrivare fino al milione di copie, e che ogni anno hanno sfornato almeno 208 opere.
E infine i “grandi editori” che superano il milione di copie, e sono il 2,1% del totale, e che ogni anno mettono in catalogo almeno 771 nuove opere.
Ebbene, sommando i “grandi” e i “medi” (cioè il 7,8% degli editori complessivi) raggiungiamo il 59,1% della produzione nazionale di titoli, e, pensate bene, il 91,3% della tiratura!
Stiamo parlando di 152 case editrici che detengono il 91,3% della tiratura, e fanno praticamente la partita, lasciando alle altre 1600 le briciole.
In pratica, ogni opera prodotta da un medio o grande editore nel 2019 ha avuto una tiratura di 3.371 copie.
È chiaro l’impatto che possano avere in termini economici questi volumi: i “grandi” 63,3% del valore della produzione libraria; i “medi” producono circa 208 opere a testa, e incassano il 30,1% del valore economico, a fronte del 91,3% della tiratura nazionale. Per produzione economica, l’Istat intende il prezzo di copertina per il numero delle copie stampate.
I “piccoli” e i “micro” devono accontentarsi degli spiccioli: anche da loro proviene il 40,9% dei titoli pubblicati, la loro tiratura non supera il 8,7%, e devono fare i conti con la miseria del 6,6% del valore economico rimanente.
Si verifica anche nell’editoria quel rapporto 10 a 1 che è presente anche in tanti altri settori della nostra economia, e cioè meno del 10% degli operatori consegue più del 90% della ricchezza prodotta nel comparto.
In questo caso “grandi” più i “medi” costituiscono solo l’8,9% del totale degli editori, e realizzano il 93,4% dei ricavi.
Una dittatura.
Ma in termini monetari, di quanto stiamo parlando?
Abbiamo detto che l’Istat pondera il valore economico sulle copie stampate, non su quelle vendute (il cui dato rimane nella disponibilità del venditore, che non sempre lo fornisce).
I dati relativi alle vendite complessive restano avvolti nel segreto, spesso industriale.
Possiamo solo fare delle congetture: certo, se hai a disposizione meno del 10% dei prodotti in commercio, è molto difficile che tu riesca ad avere visibilità tale da farti arrivare ad un pubblico vasto di acquirenti.
Abbiamo detto che nell’anno in esame ci sono stati 90,1 milioni di copie vendute e hanno realizzato 1,4 miliardi. Questo significherebbe che il ricavo di ciascun libro venduto nel 2019 sia stato in media di 16 euro.
Proviamo a ipotizzare che le vendite siano proporzionali alla tiratura (tanto, chi ce lo impedisce!), ebbene, moltiplicando quel valore per le tirature in commercio, abbiamo che il 91,3% è stato pari a 1,29 miliardi, e se lo sono aggiudicati i “grandi” e ai “medi”.
Insomma, muovendoci sempre nei dati Istat, c’è un gruppetto di 152 editori che con i loro 51mila titoli annui ha incassato mediamente 8,49 milioni di euro a casa editrice.
Purtroppo non abbiamo dati disaggregati tra “grandi” e “medi” editori, quindi possiamo dire poco su quanto abbiano potuto rendere ciascuno delle loro pubblicazioni; ma possiamo immaginare che la piramide sia ancora più ripida man mano che si percorrano i gradini verso l’alto.
Facendo le debite proporzioni, in media, da un libro di area medio-grande l’editore è riuscito a ricavare nel 2019 circa 8.674 euro.
Per i 1600 piccoli e piccolissimi, invece, i risultati non sono incoraggianti.
A loro vanno praticamente i rimasugli del barile, da cui è difficile grattare la scorza: rimarrebbero solo 122milioni di incassi da dividersi tra oltre 1.500 soggetti, per arrivare al modesto risultato medio di 77.000 euro ciascuno; in pratica un editore che non sia medio-grande può attendersi solo questa infima entrata, meno di ottantamila euro l’anno, con cui far quadrare i conti tra tipografi, redattori, consulenti, correttori, grafici, locatari, distributori.
Per essere piccoli ci vuole tanta resilienza.
Più liberi, più librai
Non so, ma c’è qualcosa che mi dice che forse mettermi a produrre libri non dovrebbe essere così redditizio, a meno di non appartenere a quella elite di editori che detengono il 91,3% della tiratura nazionale, e che con 979 opere all’anno portano a casa 1,2miliardi.
Solo con la vendita dei libri.
E almeno il doppio con altre non meglio precisate attività.
Proviamo a pensare di vendere libri, magari mettendo su una libreria.
Come se la passano i librai?
Certo, la libreria si è confermata come il principale canale attraverso cui gli italiani comprano libri, ci dicono gli editori.
Però il comparto perde 13 punti percentuali in un decennio, passando dal 79% del 2007 al 66% del 2019.
Nel mondo delle librerie, poi, assistiamo ad uno “spostamento”, per usare il prudente lessico degli industriali; sempre meno librerie sono a conduzione familiare e sempre più quelle di catena, che passano dal 36,5% dell’anno precedente al 44,00% del 2019.
Le librerie di catena sono quelle legate ad un franchising, spesso connesso a qualche casa editrice, o qualche distributore. Molto più spesso, poi, sono essenzialmente di proprietà loro, o di società controllate o partecipate da loro.
E sono quelle che impongono di esporre in vetrina, e nei posti più in vista le pubblicazioni delle loro edizioni, e che invece relegano al fondo di quale scaffale negletto le opere degli esordienti, o degli scrittori minori. O magari, non le espongono neppure.
Ma dietro questo fenomeno, pudicamente rubricato come “spostamento”, si nasconde un’ecatombe.
Il dato più sconfortante è infatti assistere al dimezzamento delle librerie indipendenti, che registrano un passaggio dal 42,5 al 22% del totale nazionale.
Detta in altri termini: una libreria indipendente su due ha chiuso per sempre la saracinesca nel 2019.
Alla faccia dell’incremento positivo del mercato!
Si può dire che sia scandaloso il fatto che nei rapporti Aie questo dato non venga enfatizzato con la dovuta gravità? (Vabbè, l’ho detto lo stesso, tanto, di indignazione non è mai morto nessuno).
Però, forse no: è del tutto ovvio che la cosa non tanga l’associazione degli editori.
Del resto, tenuto conto che ormai l’80% delle librerie è “di catena”, i loro occhi sono rivolti solo ai loro librai, e rilucono di orgoglio.
Le scuole per librai organizzate dall’Aie hanno il sapore di cripto-corsi di formazione professionale tenuti per i propri dipendenti. Solo che i partecipanti non lo sono, e pagano anche i costi delle lezioni.
D’Aje!
Però credo che questi non siano compresi nel contratto.
Certo, se volessimo fare business nel settore librario, forse la scelta della libreria indipendente si rivelerebbe molto complicata.
Proviamo a togliere quell’asterisco, e parliamo un attimo di lockdown, cioè di limitazioni all’accesso agli esercizi commerciali, connessa alla limitazione agli spostamenti dei cittadini.
Parliamo, fatalmente, di pandemia. Parliamo, cioè, dell’elemento che ha fatto crescere moltissimo il fatturato del commercio elettronico, a discapito degli operatori tradizionali (sempre Amazon, pare abbia raggiunto i 10miliardi di utili nel 2020, a fronte dei 2 dell’anno prima).
È un fenomeno che ha toccato tutti i settori e il libro non ha fatto eccezione: secondo le stime dell’Aie nelle prime 16 settimane del 2020, le vendite online raggiungevano il 47% di quelle complessive di varia, contro il 26,7% dell’anno precedente.
Le librerie passano da 66,2% al 45,0%, mentre resterebbe stabile la grande distribuzione (supermercati, magazzini, edicole, autogrill, etc.) al 7,3%.
Gli editori, però, hanno pubblicato una seconda rilevazione che datava ottobre 2020, resa nota il 16/12/2020, e secondo cui i canali fisici di vendita dei libri sarebbero tornati a crescere: dopo una flessione registrata a maggio (dove solo il 20% aveva dichiarato di acquistare libri in libreria, contro il 39% acquistati on line), a ottobre il dato si sarebbe riposizionato in territorio positivo, cioè superiore alla metà del totale (con il 67% degli acquisti di libri cartacei avvenuti con acquisti in libreria, contro il 38% del canale telematico).
Ma questi dati sarebbero frutto di un sondaggio demoscopico, non di una vera e propria ricognizione delle statistiche effettive di vendita.
Abbiamo scongiurato, per il momento, il rischio di vedere la libreria spodestata nel primato di luogo principe di vendita di libri.
In ogni caso, nel rapporto vendite del 2019, l’ultimo disponibile, le vendite digitali hanno registrato un ulteriore balzo, figlio di un’onda lunga iniziata nel 2009 (con un iniziale 3%)fino ad arrivare al 26,7% dieci anni dopo.
Mentre la grande distribuzione avrebbe visto i propri ricavi scendere dal 18% del 2007 al 7% del 2019.
Non benissimo, purtroppo.
Insomma, troppe incognite sul settore, occorre anche dire che non è possibile prevedere come cambieranno le abitudini dei consumatori e dei lettori dopo la pandemia, la cui fine, peraltro, pare tutt’altro che dietro l’angolo.
Molti temono che l’abitudine all’acquisto telematico possa rivelarsi preponderante anche dopo questo periodo, mettendo ulteriormente in crisi il comparto indipendente.
Il settore della libreria indipendente è stato, infatti, l’unico soggetto economico a non aver potuto beneficiare di quell’incremento di fatturato complessivo del mercato, né di quel record che aveva fatto riempire di giubilo le trombe dell’Aie.
Però ora basta parlare di cifre e statistiche. La libreria è anche profumo. Ed è tatto. Ed è curiosità, fantasia, immaginazione, ricordi. Affetti, pensieri, esperienze. Tutti questi titoli, tutte queste copertine suscitano mille aspettative, mille interrogazioni, mille immaginari, mille proiezioni.
Non c’è luogo paragonabile alla libreria dove sia possibile naufragare, alla deriva, tra le mille sollecitazioni della parola scritta, e tangibile.
Non sarà certo un flusso di dati, non riuscirà un meccanico, impalpabile, incessante movimento di informazioni automatiche sparate attraverso un cavo a privarci di tutto questo!
No!
Però, non so, forse, io per quell’investimento aspetterei ancora un pochino.
Caro amico, io scrivo!
A questo punto, quindi, abbiamo capito che leggere libri non ci garantisce di essere compresi meglio, stampare libri non conviene se non sei abbastanza grande, venderli da indipendente è diventato pericoloso, e, quindi: vuoi vedere che l’investimento migliore è quello di scriverli!
Quando rende fare lo scrittore?
Vediamo un po’ quanto scrivono, cioè quanto riescono a pubblicare i grafofili nostrani.
Se guardiamo al genere dei libri venduti, dice l’Aie con toni trionfalistici, “spicca l’ottima performance della narrativa italiana, che cresce sia come valore (205,9 milioni di euro, +7,3%) che a numero di copie vendute (13,8 milioni, +6,2%) e della non fiction specialistica (+9% a valore per 261,3 milioni di euro e +5,1% a copie vendute per 10,4 milioni)”.
In questo settore sarebbero ricompresi i manuali per i concorsi pubblici, la psicologia, la filosofia.
In calo la narrativa straniera sia quanto a valore (251,4 milioni di euro, -1%) che a copie vendute (17,3 milioni, -2,8%). Rallenta un po’ la corsa, pur mantenendosi a livelli molto alti, il settore bambini e ragazzi: vendite a valore di 246,7 milioni di euro (+3,4%) e 20,9 milioni di copie (+2,9%).
Va bene. Mah…
Anche così cabaleggiando, non mi è ancora chiara la portata del fenomeno, voglio dire: se scrivo un libro di medio successo, quanto potrei guadagnare? E cosa significa in Italia un libro di medio successo? Quanto venderebbe in un anno?
Se voleste fare uno scrittore, quante copie vi aspettereste di vendere in un anno senza pandemia, e magari “da record”?
Bè, non so voi, ma io mi riterrei molto soddisfatto di piazzare 200 o 300 mila copie. Insomma, se arrivassi al milione si dovrebbe parlare di successo, quindi, planerei più basso; anche 100mila andrebbero bene…
No.
Non è così.
E per l’anno 2019 possiamo dirlo con certezza.
Siamo stati davvero fortunati, perché (complice, forse, uno scherzo fatto in rete) abbiamo avuto la possibilità di leggere una statistica dettagliata dei libri venduti tra gennaio e ottobre, redatta dall’istituto GFK per conto della Aie, pubblicato su ItaliaOggi, con l’indicazione numerica delle vendite di ciascuno dei primi 20 titoli in classifica.
E la risposta è stata per certi versi sorprendente, per altri deprimente.
Il primo posto dei libri più venduti in Italia nel 2019 è occupato da un gruppo di ristampe, edito dalla Feltrinelli secondo l’opzione 1+1 a 9,90 euro; in totale, questo insieme di libri, considerato dalla GfK come un titolo unitario, avrebbe il gradino più alto del podio.
Ebbene, sapete quanto ha venduto, questo primatista?
421mila copie, per un incasso di circa due milioni di euro (importo ottenuto moltiplicando selvaggiamente il prezzo d’acquisto per copie vendute).
Se si fosse trattato di un singolo autore, magari con una royalty al 15%, avrebbe ricavato quasi 300mila euro, lordi.
Buttali via!
Solo che non era un autore.
Al secondo posto abbiamo il compianto Camilleri, con il suo Il Cuoco dell’Alcyon con 251mila copie, e poi al terzo la Auci con I leoni di Sicilia. La saga dei Florio, con 212mila copie.
Ora, immaginiamo, anche qui, che il prezzo di vendita medio sia stato di 18,00 euro (come riporta la copertina), per circa 4,5milioni di incassi; quindi, immaginando sempre le stesse percentuali di diritti d’autore, avremmo un importo non inferiore a 670mila euro in dieci mesi.
Ottimo, potremmo dire.
Solo che non tutti possono permettersi i volumi di vendita della Auci.
In classifica, nella top20 ci sono, infatti, alcune presenze strane.
Ben 8 posizioni, infatti, sono occupate da titoli multipli (come nel caso della Feltrinelli).
La principale casa editrice italiana, la Mondadori (giusto per fare nomi), non ha in classifica neanche un romanziere: il suo titolo meglio piazzato è Entra nel mondo di Lui e Sofi, scritto da due blogger per bambini, con 129mila copie, al nono posto.
Subito dopo c’è il successo di una ex tronista di Maria De Filippi, Le corna stanno bene su tutto, con 106mila, al decimo.
Quindi una ristampa di Camilleri, Km 123, con 89mila copie, al 15 posto.
Subito seguito da altri due blogger, con #Valespo, con 81mila.
Insomma, nei suoi primi classificati non c’è neanche uno scrittore in carne ed ossa.
Questo lascia capire che oggi quello che più vende non sia tanto il libro, quanto il suo autore, la sua firma; le principali case editrici tendono a pubblicare libri di personaggi già famosi, che possano contare sulla loro notorietà per fare da traino (o da gancio) sui lettori (analogamente, forse, a come fanno i partiti con gli elettori).
Certo, con le dovute eccezioni: Auci, Camilleri, Scurati e pochi altri.
Chi?
Allora, vediamo gli scrittori veri e propri: oltre alla professoressa liceale e al giallista defunto, c’è il vincitore dello Strega, l’ex magistrato, l’autrice fantasma, l’intimista anglofona. Manca solo l’ebreo errante.
Insomma, più che romanzieri veri e propri sembrano quasi archetipi editoriali: proprio quello che vogliono i venditori.
Tutto il resto sono ristampe, raccolte, fumetti, blogger.
Famigerabilia
Ricordo che fece molto discutere un episodio accaduto qualche anno fa a un noto salone del libro: durante la giornata inaugurale gli organizzatori notarono un’anomala fiumana di avventori, e si compiacquero; finalmente c’è fermento, si dissero. Subito dopo, però, si accorsero di una cosa strana: tutti i membri di quella moltitudine erano lì solo per il firmacopie di ex calciatore dell’Inter che presentava il solito immemorabile memoriale. E tutta quella folta schiera faceva la fila, riceveva l’autografo, e girava i tacchi, disinteressandosi totalmente di tutti gli altri stand, delle altre cose, e degli altri libri colà presenti.
Più di qualcuno ci rimase male.
Ma i tempi sono questi, che ci vogliamo fare: è il mercato, bellezza!
Prendiamo l’ultimo in classifica del 2019, La stanza delle farfalle, della nordirlandese Lucinda Riley, con 77mila copie: significa (a parità prezzo e retrocessioni), immaginare 150-200 mila euro lordi l’anno per l’autore.
Insomma, tanta roba.
Ma per pochi.
E tutti gli altri?
Secondo le analisi avanzate al convegno Più libri più liberi, organizzato sempre da una “costola” dell’Aie che analizza la piccola e media editoria, il mercato librario nazionale è pur sempre ristretto.
A vendere più di 100mila copie, nel 2019, sarebbero stati solo quattro titoli.
La classifica della GFK, invece, ne contava ben 7 (5, togliendo i due blogger), secondo l’Aie, nel 2018 erano due; ma questo cambierebbe poco.
Lo zoccolo duro delle case editrici è ben sotto le 10mila.
Significa, poco più di 10 mila euro lordi di diritti d’autore all’anno per gli scrittori; tolte le tasse, resta quasi un reddito da gratuito patrocinio.
Insomma, considerando i “grandi” e “medi” editori, quelli cioè che stampano ogni anno almeno 979 titoli in oltre centomila copie l’uno, solo in 4 o 5 evitano il macero.
Per questo ci sembra strano che i 90milioni di copie vendute provengano solo da 192milioni di libri offerti in vendita (come risulta incrociando le dichiarazioni di Levi, con la tabella pag. 2 del report dell’Istat).
Nel comparto della piccola e media poi, la pietanza sarebbe ancora più misera: il 91% dei titoli come detto, non arriverebbe a vendere più di 100 copie.
Cento copie significa, praticamente, poco più di 200 euro all’anno per ogni autore, anzi, per la quasi totalità di coloro che abbiano pubblicato un titolo in un anno.
Un po’ pochi, per pensarlo come fonte di reddito, a meno che non sia di cittadinanza.
Nel 2018 (fonte Italpress) le grandi case editrici avevano prodotto mediamente solo 254 opere librarie con tiratura superiore a 600mila copie.
Ecco, entrare nel giro dei “grandi”, sarebbe interessante; ma quanto redditizio?
Il ricavato delle case editrici medio-grandi è stato di 8,5 milioni cadauna, con 979 titoli editi l’anno; significa che da ogni opera sono stati ricavati 530.000 euro, che a 16 euro l’uno fanno 542 copie vendute a testa.
Dico, 542 opere vendute a testa da uno scrittore di medio-grande editore in un anno da record!
Non mi pare proprio un record.
Magari, non lo so, è anche per questo che quasi tutti gli scrittori fanno anche un altro lavoro.
Ci sono scrittori giornalisti, consulenti, critici, professori, politici, direttori di collana, organizzatori di eventi…
E poi formatori. Magari i formatori per altri aspiranti scrittori. Aspiranti librai, aspiranti editori, o aspiranti lettori.
In fondo, coi libri, ci vuole tanta aspirazione.
Tante domande
Se alla fine di questo viaggio non avete ottenuto tutte le risposte che vi sareste aspettati, non è colpa nostra. Molte domande sono rimaste inevase, e varrebbe la pena finire la nostra inchiesta così, enumerando tutti i dubbi che sono sorti leggendo le statistiche disponibili.
Chissà che qualcuno, un giorno, non voglia rispondere.
Resterebbe, comunque, un canovaccio interessante per un’intervista.
- Come mai nel 2019 l’Aie ha stimato 29,5 milioni di lettori in Italia e l’Istat solo 22?
- Perché le statistiche prendono in considerazione soltanto lettori “deboli” (che leggono almeno tre libri l’anno) e lettori “forti” (che ne leggono almeno 12 libri l’anno)? E gli altri (chi non legge neanche tre libri, o ne legge più di dodici)?
- Quanti libri (per titoli) sono stati pubblicati in tutto nel 2019?
- E quanti titoli pubblicati ogni anno sono delle novità, o delle prime traduzioni?
- Quanti e-book sono stati pubblicati nello stesso anno? E quanti di questi avevano un corrispettivo cartaceo, e non erano pubblicazioni esclusivamente elettroniche?
- Quanti editori esistono in Italia? Perché c’è questa differenza tra le stime Istat e quelle Aie?
- Il fatturato del settore è di 3,037 miliardi nel 2019, eppure solo 1,42 miliardi proviene dalla vendita di libri. E il resto?
- Come mai a ottobre il venduto dei libri era di 850 milioni di euro e a dicembre era schizzato a 1,42 miliardi, com’è stato possibile?
- Quanti libri sono stati venduti, in tutto, in Italia nel 2019 (comprendendo tutti i settori, anche libri scolastici, scientifici, multimediali, etc.)?
- Qual è stata la tiratura complessiva dei libri in Italia? E la percentuale di libri venduti rispetto alla tiratura complessiva?
- È vero che i distributori scontano le fatture delle piccole case editrici pur consapevoli che il 90% delle copie sarà invenduta? Perché adottano questo sistema?
- Qual è stato il ricavato delle case editrici medio-grandi nel 2019? E tra le medie, e le grandi in percentuale com’è suddiviso questo valore?
- Quante librerie di catena sono di proprietà di case editrici, e di distributori, direttamente o per il tramite di società controllate o partecipate?
- Qual è l’ammontare di una royalty per un autore? È possibile stimare, in media, quale sia il suo guadagno ogni 1.000 copie, con un editore medio-grande?
- E quanto vende un titolo di un autore in un anno, e in un arco temporale più o meno lungo (diciamo, prima di non essere più ristampato)?
Le fonti del nostro articolo sono queste (tutti i link sono verificati fino alle ore 11:42 dell’8/3/2021):
Le dichiarazioni del Presidente dell’Aie sul numero di libri venduti nel 2019
https://www.giornaledellalibreria.it/news-mercato-il-mercato-del-libro-in-italia-nel-2019-4048.html#:~:text=Le%20copie%20fisiche%20vendute%20nel,%25%20rispetto%20l’anno%20precedente.
La popolazione italiana nel 2019 per fasce d’età
https://www.tuttitalia.it/statistiche/popolazione-eta-sesso-stato-civile-2019/
Il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2020 dell’Aie
https://www.Aie.it/Portals/_default/Skede/Allegati/Skeda105-5034-2020.10.13/AIE_Il%20mercato_Dalla%20crisi%20al%20recupero_14%20ottobre%202020.pdf?IDUNI=dr4idbfzfsblkd4yfynn1mym3120
Il Report “Produzione e lettura di libri in Italia nel 2019” Istat
https://www.istat.it/it/files//2021/01/REPORT_LIBRI-REV_def.pdf
L’inchiesta del Post.it “Perché in Italia si pubblicano così tanti libri”
https://www.ilpost.it/2017/05/02/perche-in-italia-si-pubblicano-cosi-tanti-libri/
L’inchiesta de linkiesta.it “Sorpresa, in Italia si vendono più libri. Ed è (in gran parte) merito di Amazon”
https://www.linkiesta.it/2019/12/italia-libri-editoria-piccoli-medi-amazon/
Il Comunicato di Italiapress nell’articolo “Libri in aumento l’offerta dei titoli ma si riducono le tirature”
https://www.ragusaoggi.it/libri-in-aumento-lofferta-dei-titoli-ma-si-riducono-le-tirature/
Umberto Eco e i Promessi Sposi a scuola
https://www.frammentirivista.it/cosa-ha-detto-umberto-eco-a-proposito-del-manzoni/
Pierpaolo Pasolini “Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo”, 18/10/1975
https://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html
Rapporto Ocse 2013, italiani ultimi nelle capacità di comprensione dei testi
http://www.oecd.org/skills/
Analfabetismo funzionale nel 2019
https://www.open.online/2019/12/06/in-italia-19-studenti-italiani-su-20-sono-analfabeti-funzionali-cosa-dice-davvero-il-rapporto-ocse-pisa/
Gli studenti non sanno l’italiano, appello dei 600 prof
https://www.corriere.it/scuola/universita/17_febbraio_04/gli-studenti-non-sanno-l-italiano-denuncia-600-prof-universitari-3db50faa-eb16-11e6-ad6d-d4b358125f7a.shtml
Analisi tagliente, lucida e – per chi scrive quanto per chi legge – deprimente. Complimenti.