Con Cuorespina (Affiori), Martina Melgazzi fa il suo ingresso nel panorama della narrativa italiana con una voce decisa e originale. Copywriter di professione e con una formazione in Lettere Moderne e Digital Content Management, l’autrice bresciana porta sulla pagina un intreccio intenso e viscerale ambientato nell’Italia di fine Ottocento, tra segreti di villaggio, rapporti familiari complessi e ribellioni contro le convenzioni sociali.
La storia della contessina Fiore Cuorespina, costretta a un matrimonio di convenienza e trascinata in un mondo fatto di potere, inganni e oscuri legami, diventa un racconto di resistenza e liberazione, scritto – come dichiara la stessa autrice – in un momento di rabbia, senza concessioni a moralismi o retorica.
In questa intervista abbiamo chiesto a Martina Melgazzi di raccontarci meglio il suo esordio letterario, le ispirazioni che l’hanno guidata, i temi che attraversano il romanzo e il suo modo di intendere la scrittura.

Martina, nel romanzo il fuoco e la perdita iniziale segnano un punto di non ritorno per la protagonista: cosa ti ha spinto a partire proprio da una catastrofe familiare come scintilla narrativa?
Mi interessava raccontare un inizio che fosse anche una fine. Un evento capace di spogliare la protagonista di tutto quello che la definiva — casa, nome, ceto, sicurezza — per vedere cosa rimane quando il mondo che ti proteggeva brucia. Il fuoco, in Cuorespina, è sia distruzione che rivelazione: una sorta di rito d’ingresso nella consapevolezza. Dopo l’incendio, Fiore non può più nascondersi dietro la forma, la buona educazione o il privilegio: è costretta a fare i conti con la propria identità nuda. A livello più personale, avevo voglia di scrivere una storia che nascesse da un collasso. Non da una speranza o da un sogno, ma da una perdita violenta, da qualcosa che toglie prima di dare.
Il personaggio della madre appare forte, calcolatrice, ma anche contraddittorio: quanto è stato difficile costruire questa figura femminile e che ruolo le attribuisci nel cuore della storia?
La madre di Fiore, Margherita, è una “personaggia” sicuramente scomoda. È una donna che vive in un’epoca in cui non esistono spazi di libertà reale per chi è nata con certi doveri sociali, e l’unico modo che ha per sopravvivere è esercitare potere dentro i limiti che le sono concessi. Quella sua freddezza, quel modo di calcolare, di manipolare, nascono più da paura che da crudeltà: è la paura di scomparire, di non contare più niente in un mondo che la giudica in base a ciò che possiede o riesce a mantenere.
Non l’ho mai pensata come una “madre cattiva”, ma come una donna che ha imparato a usare le armi del suo tempo. E questo la rende contraddittoria, perché il suo modo di proteggere Fiore, forzandola a un matrimonio, controllandola, spingendola verso la convenienza, è anche il modo in cui la ferisce di più.
La voce narrante di Fiore è d’altro canto spesso tagliente, ironica e disincantata: quanto di questa voce appartiene anche a te, come autrice?
Molto più di quanto vorrei ammettere. Fiore non è un mio alter ego, ma è la parte di me che non riesce a stare zitta. Quella che osserva le cose con lucidità e rabbia, ma invece di urlare le trasforma in linguaggio. Quando scrivevo Cuorespina, avevo bisogno di una voce che non addolcisse niente: né le emozioni, né la realtà sociale in cui la storia è immersa. Fiore è tagliente perché non può più permettersi di essere dolce, è una donna che capisce, a sue spese, che dire la verità ha un prezzo, ma anche che il silenzio costa di più. C’è anche un aspetto ironico che mi rappresenta: quell’ironia come forma di sopravvivenza, non come leggerezza. Fiore usa le parole come un’arma e come una difesa, e credo che anche la mia scrittura nasca da lì, dal bisogno di mettere ordine nel disordine, di trovare senso anche quando non ce n’è.
C’è un genere letterario in cui vorresti cimentarti e uno in cui proprio non riusciresti a calarti?
Mi piacerebbe cimentarmi con il thriller o con l’horror, ma non tanto per la componente di paura quanto per la tensione che questi generi portano con sé. Mi affascina la costruzione del ritmo, la capacità di far crescere l’inquietudine fino a renderla quasi fisica. In fondo, Cuorespina ha già qualcosa di quel respiro: l’atmosfera, il non detto, il sospetto costante che dietro i gesti quotidiani ci sia qualcosa di marcio. Mi piacerebbe spingermi più a fondo in quella direzione, esplorare la paura come linguaggio, non come effetto.
Il genere in cui invece non riuscirei a calarmi è il rosa. Non per snobismo, figuriamoci, ma perché mi interessa raccontare ciò che incrina, non ciò che rassicura. Cerco sempre il buio, la stonatura, la brutalità del reale, quei punti dove le persone si spaccano o si rivelano.
Negli anni, occupandomi di comunicazione giornalistica, ho notato che su alcune figure esiste ancora molta confusione. Vuoi spiegarci esattamente il ruolo di una Copywriter?
Una copywriter è, prima di tutto, qualcuno che scrive per dare voce a qualcun altro. È una figura che lavora con le parole come strumenti di identità: serve a costruire un tono, una visione, un modo coerente di comunicare ciò che un brand o un progetto vuole essere. In pratica, traduciamo concetti e valori in linguaggio, cercando la forma più precisa, efficace e riconoscibile per farli arrivare alle persone giuste.
Non è tanto una questione di scrivere “bene”, ma di saper leggere il contesto, capire le intenzioni, ascoltare la voce di chi c’è dietro e restituirla con autenticità. Spesso il nostro lavoro è invisibile, perché deve sembrare naturale, come se quelle parole esistessero da sempre. Ma dietro ogni frase c’è un pensiero strategico, un ragionamento linguistico e spesso anche una dose di empatia.
Come vedi l’AI nel tuo lavoro e nell’ambito editoriale?
Non sono un’illusa: so che l’intelligenza artificiale è già una componente importante del nostro presente, e che nei prossimi anni lo sarà sempre di più. Personalmente, mi piace pensarla come un supporto, uno strumento, non un sostituto. Un archivio intelligente, un raccoglitore di riferimenti, un generatore di input. Un’assistente invisibile che può aiutarmi a mettere ordine, a testare idee, a fare analisi di mercato o a immaginare strategie di lancio. Insomma, una tecnologia che, se usata con criterio, libera tempo e spazio creativo.
Quello che non mi piace è quando viene utilizzata per rimpiazzare tutto ciò che richiede sensibilità, esperienza e cuore. Dalle copertine alle traduzioni, fino alla scrittura vera e propria: lì non vedo innovazione, ma solo una scorciatoia economica. Credo che il valore umano resti insostituibile, soprattutto in un mestiere come questo, dove la scrittura non è solo un prodotto, ma un modo di pensare, di sentire e di interpretare il mondo. L’AI può assistere, ma non può sentire (e non potrà mai farlo).
Un’ultima domanda: se dovessi descrivere Cuorespina con un’unica immagine o simbolo, quale sceglieresti e perché?
Sceglierei l’immagine di una ragazza che corre lontano. Non verso qualcuno, ma verso la propria strada o forse semplicemente via, via dall’ordinario, dalle aspettative, dalle catene che le hanno costruito addosso. È una corsa che non ha una meta precisa, ma un’urgenza: quella di restare viva, di salvarsi da tutto ciò che la immobilizza.
Per me Cuorespina è esattamente questo: il momento in cui una donna capisce che non può più aspettare di essere capita o approvata, e decide di muoversi. Anche se fa paura, anche se non sa dove arriverà.
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