Cari lettori, oggi la nostra Lina Morselli ci delizia con un’altra recensione accurata e precisa del meraviglioso libro “Buio in sala” di Jung-myung Lee, edito da Sellerio.
Come per tutti i grandi romanzi (e questo di certo lo è!), molti sono i contenuti, ognuno con un suo peso, e già il titolo prelude ai temi dell’ambiguità, su cui si gioca l’intera trama: il buio in sala può essere quel momento magico che precede l’inizio dello spettacolo, ma può indicare anche la desolazione di una sala spenta e di un palcoscenico chiuso. Apertissimo è invece lo spazio lasciato alla profonda cultura personale dello scrittore, una cultura mai supponente, ben salda in una posizione solida di aiuto e sostegno nel vivere quotidiano, come si addice alla cultura vera. Libro bellissimo, questo, anche grazie alla perfetta traduzione di Benedetta Merlini.
POCHI PERSONAGGI PER UNA TRAMA COMPLESSA
Nella Corea degli anni ’80, l’investigatore Kim Kijoon, con un mandato straordinario del suo Supervisore, insegue Choi Minseok, il capo delle rivolte continue e violente degli studenti in un contesto storico-sociale di grande incertezza politica, dove si susseguono generali che gestiscono lo Stato con poteri dittatoriali. Però è risaputo che del capo ribelle non ci sono foto, né notizie certe, tanto da farne una Primula Rossa, invisa al potere ufficiale quanto amata dai suoi antagonisti. Kim Kijoon e la sua squadra ce la mettono tutta, e arrivano ad ipotizzare che il nemico sia il regista teatrale Lee Taejoo, sulla base di una sola foto sfocata e ambigua, scattata da lontano durante un’ennesima sommossa studentesca. Il regista viene arrestato al termine dello spettacolo da lui diretto, si tratta del “Giulio Cesare” di Shakespeare, faticosamente passato al vaglio della rigidissima (e stupidissima) censura, eppure contenente battute che pare colpiscano direttamente il potere in carica. L’interrogatorio è condotto da Kijong, alla sua maniera: non crede alla tortura, né alle intimidazioni, mentre è convinto che la ricerca di emozioni vere possa tradire anche il più cocciuto dei prigionieri. Entrambi gli uomini sono consapevoli di essere in una scena che prevede un copione, come in un teatro, e proprio a suon di battute viene condotto un interrogatorio/spettacolo che induce l’investigatore a desistere, non ci sono reali prove contro il regista, e il Supervisore scioglie la squadra investigativa, accusata di incapacità. Fino a quando lo stesso Kijong riesce a ricomporre l’indagine, anni dopo, seguendo la messa in scena di “Le scuse di Elettra”, una rivisitazione dell’Elettra di Euripide. Il regista è sempre il sospettato Taejoo, la prima attrice interprete di Elettra è la giovane e bella Jina, innamorata della recitazione e ben disposta ad impararne i segreti. La formazione di un’attrice diventa così comprimaria della narrazione, in un susseguirsi di maestri inattesi, di finanziatori spuntati dal nulla e di figure che dedicano al teatro un’attenzione e una tensione da grandi appassionati, mentre il lettore viene colto da alcuni dubbi sulla loro reale identità: chi sono realmente i personaggi che si muovono intorno all’ingenua Jina e al regista appassionato del teatro classico? Taejoo e Jina diventano una coppia che pare indistruttibile, e lei è così presa dall’amore per il regista da accettare da lui strani incarichi, per lo più consegne di pacchetti e buste a presenze oscure e dall’aria ambigua. Kijong non perde una mossa, fino a tessere una trama quasi diabolica di inseguimenti, contatti, travestimenti e false identità intorno al regista e al suo spettacolo, pronto ad arrestarlo alla sera della prima, convinto ormai da mille indizi che egli sia “davvero” il fantomatico capo ribelle Choi Minseok. Più si avanza nel romanzo, più i nomi si sovrappongono, le identità si scambiano e ciò che appare diverge da ciò che è davvero. Ma qualcosa stravolge i piani investigativi e non solo: tra il pubblico della prima, inattesa, c’è l’intera famiglia dell’ambasciatore statunitense e ad un certo punto nel teatro scoppia una bomba. Gli americani vengono fatti uscire in fretta e furia, c’è un fuggi fuggi generale dal quale spunta a sorpresa addirittura il Supervisore, che cattura personalmente il regista e pone fine all’annoso inseguimento del nemico numero uno dello Stato coreano, stavolta senza tentennamenti e con una confessione piena. Perché Lee Taejoo si dichiara colpevole? La sua è una confessione o una scelta di campo obbligata? Lee Taejoo riconosce se stesso come capo dei ribelli o come organizzatore di un attentato agli americani? E ancora, perché il Supervisore si trova nel teatro? Perché soffia a Kijong il merito del successo nell’indagine? Perché lo stesso Kijong resta spiazzato dall’offesa, ma non reagisce? E infine: chi sono veramente coloro che hanno seguito la storia d’amore tra Taejoo e Jina? Dopo sette anni di prigione, nel 2003, Taejoo si ritrova in libertà, in un mondo che non riconosce (l’URSS non c’è più e Gorbacev è dimenticato, Eltsin è un alcoolizzato e Reagan ha l’Alzheimer). Jina gli era stata sì vicina per i primi anni di prigionia, ma poi aveva scelto di entrare nel mondo del cinema, e la loro storia era finita. Ora la stessa Jina, attrice di grande successo, torna sul palcoscenico per un’ennesima ripresa di “Le scuse di Elettra”, stavolta nel ruolo di Clitennestra. Lee Taejoo dimenticato da tutti e in miseria, si suicida. E’ il 2007. Ma non è questa la fine del romanzo, e come sempre la mia scelta è di non rivelarla, non solo perché non si dice l’epilogo di una storia di spionaggi e depistaggi: la fine della storia raggiunge una profondità narrativa e di riflessione che ognuno deve cogliere secondo la propria sensibilità.
IL CINEMA
Nel gioco pirandelliano delle identità, si ricostruisce la vita dei protagonisti, dalla loro adolescenza fino al presente della storia. E va da sé che anche l’immagine abbia un peso, da quella quasi classica della fotografia, usata dal potere per inseguire, riconoscere, mistificare ambienti, scene e persone, fino al cinema dei nostri tempi, che compare con “citazioni” che rasentano la perfezione. Valgano per tutti la scena dell’ultimo spettacolo su Elettra, che ricorda “Il sipario strappato” di Hitchcock, o un fondamentale appuntamento in un ippodromo, che sembra strizzare l’occhio a “Rapina a mano armata” di Kubrick. Per finire alla citazione di pag. 239: “Tutti quanti siamo pedine nelle mani di qualcun altro”, che rimanda a “Parasite”, non per nulla a sua volta film coreano. Eppure, il cinema è anche l’elemento di rottura, i due innamorati resistono finché lei sceglie il grande schermo: la tensione del palcoscenico può risultare insopportabile, un po’ come la tensione dell’amore, che muore quando non ne vengono colti i tempi, i cambiamenti, i movimenti.
IL TEATRO
Leggiamo a pag. 49: “Il palcoscenico è la Terra Santa di questo mondo corrotto, e il teatro l’arma più efficace per salvarlo”. Deus ex machina è il teatro, quasi un direttore d’orchestra, che avvolge la vita dell’intera storia. Tutti lo amano, tutti si ispirano ai suoi testi, tutti sono consapevoli di quanto la rappresentazione distingua fra loro gli esseri umani. Quanto pesi un testo, quanto sia possibile modificarne il senso, che ruolo debba avere la recitazione e cosa significhi lo stesso mestiere dell’attore: sono queste le domande, le riflessioni, a volte le cause stesse dell’agire. Il teatro quindi come via di fuga, e nello stesso tempo come eterna metafora della storia, la cui natura consente di dire anche l’indicibile e proprio per questo bersaglio per eccellenza di chi difende uno status quo.
A piene mani l’autore ci porta fra epoche, testi, rifacimenti, scuole, attraverso i secoli, ma Shakespeare e il teatro greco la fanno da padroni, persino con acute osservazioni sul ruolo del Coro. E comunque, lettore, preparati a rispolverare i tuoi ricordi sulla morte di Giulio Cesare, sui monologhi di Bruto e Antonio; e soprattutto sulla Guerra di Troia e le sue conseguenze, ritrova l’orgoglioso e offensivo Agamennone, prova pietà per sua figlia Ifigenia, giudica la moglie fedifraga Clitennestra e l’usurpatore Egisto, assisti alla vendetta ordita da Oreste ed Elettra, e resta affascinato da storie che continuano a parlarci da 2500 anni a questa parte.
LA GRANDE STORIA
Se il teatro fa da sfondo alla narrazione, la storia recente della Corea è la sua cornice. L’abilità narrativa (l’ho detto all’inizio: questo è un libro bellissimo) fa sì che gli accadimenti coreani diventino simbolici per ogni parte di mondo in cui non si rispettino le libertà fondamentali. Torna alla mente Il Principe di Machiavelli, e la sua teoria sulla conquista e il mantenimento del potere, che deve darsi principi morali diversi da quelli del popolo. Così diventano universalmente applicate alcune tecniche tristemente note: la manipolazione dell’informazione, la propaganda, lo sfruttamento delle umane debolezze, la menzogna, l’obbligo di scelta travestito da libero arbitrio, l’insensibilità nei confronti delle esigenze altrui. E ancora una volta ci troveremo a fare i conti con una realtà che dal Gattopardo alle posizioni intellettuali di Pasolini abbraccia ormai tutto il nostro mondo: cambierà la politica, con libere elezioni, ma solo come contentino, per lasciare la realtà così com’è, e per dare alle persone un’idea di libera scelta, mentre loro stesse diventano artefici involontari dei propri mali, senza veramente sapere chi sia il proprio oppressore. Nei prossimi mesi, pensiamoci.
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