L’autrice vive in Abruzzo, dove esercita la professione di dentista pediatrico. Candida al premio un’opera toponima, il riferimento nel titolo è geografico, quanto utopico.
Vediamo il contenuto. Per aiutarci utilizzeremo un riferimento triplice, prendendo le mosse dal canone classico della retorica, arte di trasferire contenuti attraverso le parole: inventio, elocutio e dispotio
Inventio
Il romanzo ha un sostrato costituito da un impianto narrativo duale. La storia si avvolge intorno alla vicenda di due sorelle, due destini, due stili di vita, due aspettative, due prospettive completamente contrastanti e divergenti. Da questo contrappunto nasce il primo asse del racconto. Da un lato c’è la protagonista, un io narrante senza nome, professoressa di italiano presso un’università francese. Dall’altro c’è sua sorella, Adriana, librofobica, indomita, madre giovanissima, dal tormentato rapporto col padre di suo figlio. Entrambe provenienti da una famiglia affatto abbiente, di una remota e rurale provincia abruzzese, prendono strade apparentemente opposte nel percorso della propria vita. L’una, la nostra narratrice, è protesa verso la cultura, e l’altra, la misteriosa Adriana, verso la natura. Proprio questo contrasto cultura-natura è il primo lato di un quadrato che si completa con un’altra coppia di elementi contraddittori rispetto alla prima diade. E cioè, la non-cultura e la non-natura. In questo quadro abbiamo la matrice costitutiva di tutti i rapporti sviluppati nel testo, o per lo meno abbiamo una bussola rispetto alla quale orientare i caratteri. Ed infatti, se da un lato abbiamo la cultura, come elemento complementare della non-natura, possiamo collocare lungo questa ordinata la nostra narratrice e la propria famiglia di origine. Una famiglia ancestrale, remota, fatta da persone che lanciano maledizioni, che non considerano il lavoro casalingo della donna degno di considerazione e meritevole di svago, che non amano parlare, che non si danno una spiegazione ai propri riti che perpetuano forse per evitare di fare ragionamenti, che disprezzano la propria condizione pur mantenendo intatto il proprio orgoglio, che hanno introiettato il proprio ritardo antropologico verso una società dei consumi verso cui, in ogni caso, prestano adesione incondizionata, e che sognano un avvenire impiegatizio per la propria progenie, aborrendo l’idea di vederne emulate le gesta.
C’è tutto un insieme di figure rinchiuse in questo lato del quadrato, c’è la società, gli studiosi, i professori, gli studenti, gli ingegneri. Sullo sfondo, c’è l’eroina del percorso ascensionale: la narratrice; che pare aver finalmente raggiunto l’agognato successo professionale, e uno stabile status borghese che le conferisce successo e sicurezza.
Dall’altro lato, polarizzato tra gli estremi non-cultura e natura, invece, c’è la sorella. Adriana. Che ha compiuto l’eretico percorso antipodico rispetto alla sorella, che alla cultura ha preferito la vita, alla scuola i pescatori, alla stabilità immobiliare la precaria dimora ambulante in un furgone. Ha rinnegato le aspettative genitoriali, e non ha voluto elevare il proprio retaggio, anzi. Ha preferito costruire il proprio progetto di vita assecondando il richiamo selvatico della rustichezza fatta di salsedine sui vestiti, di legni marci dei pontili, di cassette di pesce, di pesci mangiati crudi, belluinamente ingurgitati, con lische che rimangono attaccate ai vestiti o ai capelli, e tentacoli che sporgono dalle labbra mentre vengono masticati. La fascinazione verso il mondo dei pescatori, un’umanità a sua volta affascinata dall’elemento ostile ed estraneo alla bipede e terrestre natura umana, il mare. E quindi destinata, quasi ontologicamente, a veder travolta ogni aspettativa di stabilità dall’improvviso ingrossarsi di un’onda.
E infatti, sull’altro asse c’è il percorso che dalla non-cultura porta alla natura. La mira cui vorrebbe tendere Adriana è questa. Ci sono i mitopoietici pescatori pescaresi, a rappresentare l’asintotico percorso verso la realtà. Con il proprio sentirsi una sola famiglia, dormire con le porte aperte d’estate, vivere immersi ai gatti e a trascorrere mesate intere sulle barche, nutrendosi solo di quello che il mare può dare. Il riferimento ha un richiamo referenziale, ed è alla peculiarità tutta pescarese di avere una importante comunità di origini rom stanziata nel territorio. C’è qui un ossimoro doppio: di nomadi stanziali e residenti nomadi. Non esattamente integrati nella comunità cittadina, più che altro un’enclave, raggiungibile dopo lunghi e ansiogeni camminamenti fluviali. Il Borgo Sud è questo, e anche in questa dualità c’è da un lato la civiltà, la cultura, il borgo; e dall’altro la rustichezza, la natura, il sud.
Il tentativo è stato quello di descrivere un passaggio maldestro dall’uno all’altro campo assiologico del nostro diagramma. Il cui ruolo è giocato dalla parabola di Adriana, che compie un cammino simbolico e diabolico scegliendo di legarsi a Rafael. Diabolico perché tenta di connettere due mondi, ormai lacerati e impossibili da tenere giunti. Ma è anche simbolico, perché nella scelta del nome che dà al figlio, e nell’educazione che gli impartisce, si comprende che la tensione, o magari la torsione, piuttosto circolare che descrive la sua traiettora, il suo percorso, il suo volo. Non a caso.
La trasfigurazione fisica del personaggio, il suo passaggio attraverso tutte le fasi che portano dalla vita alla non vita, alla morte e alla non morte, descrivono anche plasticamente il tentativo di voler dare un respiro consolatorio alla storia.
E in questo, forse, ci lascia un po’ perplessi (ma è un problema nostro).
Voto 7
Elocutio
Il linguaggio della scrittrice è roso dal tentativo di far penetrare la realtà, la vita, il mondo attraverso le parole. Non ci sono compiacimenti barocchi, e sono tenuti abbastanza a freno gli impulsi autocelebrativi. Pur registrando ogni tanto qualche caduta di inspiegabile metafisica che lasciano abbastanza corrucciato il lettore poco avvezzo alle impennate glicemiche. Espressioni come “respiravamo un’aria sempre un po’ azzurra” oppure, la poco successiva “il mare evapora in casa nostra” rendono un po’ l’idea di questa spinta metonimica che, però, nel corso del romanzo è tenuta abbastanza a freno.
Colpisce il modo di predisporre le descrizioni, specialmente nella parte iniziale del libro, quella dove la costruzione del racconto richiede al lettore un maggiore impegno inferenziale. È un andamento ad espansione rematica, dove il rema diventa il tema (per rubare una battuta ai linguisti). Immaginate una sequenza composta così: A compie l’azione B; B era una pratica molto in voga a C; visitammo per la prima volta C quando eravamo in compagnia di D; D fu il grande amore della nostra vita. Sembra una specie di carosello perifrastico, come una matriosca dove le bamboline sono però tutte della stessa dimensione, e il passaggio dall’una all’altra ha esigenze narrative molto funzionali. Per esempio: “Quando sua madre lo portava al paese, in piazza i passanti si fermavano a guardarlo, così uguale a chi non c’era più. Anche la determinazione è la stessa, ma mio nipote sa dove applicarla. A sei anni si concentrava per ore sui mattoncini Lego: costruiva navi complete di ogni dettaglio. Adesso vuole diventare ingegnere nautico”. C’è la parte predicativa del primo periodo che diventa la parte referenziale del secondo che a sua volta si appoggia su una seconda parte predicativa che diventa poi quella referenziale del terzo, e così via. Un’espansione che corre vertiginosa anche attraverso anni, in avanti e indietro, che fende i ricordi, gli spazi, le emozioni mantenendo però sempre un prudente contenimento espressivo.
Il registro è sempre lineare e costante, privo di sbavature, di slanci, di cadute. Anche il linguaggio dei personaggi del borgo ha una costruzione interessante. È un dialetto italianizzato, una ufficializzazione dell’abruzzese medio, dove la testa si chiama “coccia”, dove la dolcezza delle consonanti trasforma il così in “coscì”, e dove quasi tutti i verbi iniziano con un “ri-“ che non ha funzione iterativa ma esistenziale: non si sa nulla, al limite si ri-sa.
Colpiscono i dettagli, che fanno vivida la prosa: un cubetto di grandine che cade nel bicchiere, l’onda del mare che copre e mostra la ghiaia, un lezzo d’aglio bruciato che invade una strada, un nugolo di gatti che si struscia contro gli stivali, un tubo di lattice e corrugato attaccato ad ogni orifizio respiratorio.
La scelta del particolare, del frammento, dell’immagine in cui la narrazione si svolge è la cifra del testo. Il passaggio della descrizione sequenziale e quasi cronologica degli eventi, accompagnata da improvvisi tagli intermittenti, catapulta il lettore all’interno del racconto. Accompagnato dal tono accomodante e quasi accogliente con cui la frase offre i propri semi.
Voto 8
Dispositio
Il romanzo si presenta con una scena d’apertura, cui si accompagna una doppia sequenza narrativa. L’incipit è dato da un apologo familiare tragicomico: una festa all’aperto rovinata da un’improvvisa grandinata, foriera di presagi e pregiudizi.
Lì vengono introdotti i personaggi principali, e una serie di richiami prolettici ci preannunciano un futuro problematico, angoscioso, forse addirittura drammatico per costoro. E questa è la chiave per aprire la scatola della curiosità, è questo il magnete che attrae il lettore verso la fine della storia, che lo induce a chiedersi come andrà a finire.
Successivamente, il testo è costruito dalla giustapposizione di due sequenze che progrediscono parallelamente, entrambe svolte nel passato del narratore che, in prima persona, ricorda in una imprecisata notte, quali e quanti fili abbia tessuto il proprio destino intorno a questi eventi.
E c’è quindi un capitolo ambientato in un passato più remoto in cui la sorella le compare a casa con un neonato in braccio. E nel capitolo successivo, un passato più prossimo, in cui c’è lei che ha sta compiendo i preparativi per un lungo viaggio che la riporterà a casa. Volgi il capitolo, e si ritorna al passato remoto, e si comprende meglio che quel bambino è figlio a sua sorella, ed ha un nome che connota molto più di quanto denoti. Capitolo successivo, ritorniamo ai preparativi del viaggio, e capiamo meglio che chi sta partendo è una docente universitaria residente in Francia alle prese con una scolaresca appassionata e curiosa. E poi ancora torniamo alla sorella e al bambino. E quindi di nuovo alla Francia.
Questo doppio binario dà al testo quasi la struttura di un giallo, una serie di indizi dai quali il lettore deve trarre inferenze e verificare la capacità dello scrittore di saperlo stupire. Senza usare effetti speciali, però. È questo il rischio di tutti i gialli, di tutti i racconti sin dai tempi di Aristotele: arrivare ad un finale sorprendente quanto necessario.
E il duplice intreccio si scioglie poco dopo la metà del romanzo, quando l’autrice preferisce abrogare il doppio binario e optare per la corsia unica. Adottando, però, alcuni espedienti narrativi che rubano un po’ l’effetto sorpresa. L’uso di alcuni pronomi, di alcuni suffissi, di alcuni avverbi tradisce l’identità dei soggetti, lo svolgimento degli eventi, la conclusione dei percorsi.
E dopo le iniziali sequenze da apnea, il duplice intrico si dipana in modo fin troppo morbido. Il lettore passa da un iniziale atteggiamento di “voglio vedere come va a finire” ad un cinico e quasi caustico approdo a un “voglio proprio vedere come riesce a continuare”.
Qui c’è la sfida maggiore che l’autrice propone al dedicatario, dopo aver partecipato alle febbrili e incalzanti vicende iniziali dei protagonisti, l’andamento vira brusco verso una velocità da crociera, verso un rallentamento ipnotico, verso una letargica ipossia che toglie un po’ il fiato, e un po’ il senso. Rimane priva di senso, inteso come direzione, movimento, moto, andamento l’ultima parte del romanzo. Perché dopo aver scarnificato il linguaggio per lasciarvi trapelare la vita, il testo adesso abbandona immediatamente ogni velleità morale, per poter evocare il suo opposto. Il vero fantasma che si cela in ogni astrazione, in ogni forma, in ogni espressione. La morte.
C’è molta coerenza, quindi, tra la visceralità tematica, e la messa in scena superficiale. Quasi un’isomorfia. Molta congruenza. E anche molta prudenza. Forse troppa. Ed è forse questo il limite per chi si aspettava da questa esplosiva congerie di elementi un effetto estetico un po’ più straniante.
Voto 7
Voto complessivo (dato dalla media dei voti precedenti, con opportuni arrotondamenti): 7
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