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mondo scritto e mondo non scritto

Mondo scritto e mondo non scritto

Autore: Italo Calvino

Editore: GEDI

N. pag: 312

Anno: 2021

Valutazione: 5/5

A cura di: Luca Bovino

Categorie: Libri | Luca Bovino

Arriva alla fine la pubblicazione settimanale dell’opera omnia di Italo Calvino, nella campagna promossa dalla GEDI, e articolata in 24 uscite. E come ultima perla c’è questa raccolta di articoli e saggi raccolti intorno al tema “Mondo scritto e mondo non scritto”. Si tratta di annotazioni sulla traduzione, sulla lettura, sull’editoria, sul fantastico, sulla scienza e sull’antropologia, come si può apprendere dalla catalogazione delle sezioni in cui è articolato il testo. Articoli, recensioni, commenti, relazioni, scritti presentati in contesti disparati: conferenze internazionali, prefazioni editoriali, rubriche giornalistiche, approfondimenti pamphlettistici. Una quarantina di saggi mai pubblicati insieme in un unico volume, come ci informa la nota redazionale.

E si apprezza il Calvino riflessivo e autoriflessivo, la sua prosa sempre puntuale e polimorfica, le varietà ipotattiche, le sfumature semantiche, la grande competenza lessicale e scientifica, insomma tutto l’armamentario stupefacente con cui riesce a padroneggiare il controllo della lingua per esprimere concetti. Che spesso sono rivolti alla lingua stessa.

Il saggio che dà il titolo alla raccolta “Mondo scritto e non scritto” è una sintesi efficace di un’idea letteraria della realtà; al di dà delle tante difficoltà che incontrano i filosofi, gli epistemologi, gli scienziati, i fisici per distinguere il campo metafisico da quello esperenziale (e sanno benissimo che non smetteranno mai di litigare tra criptoidealisti e pseudoempiristi), Calvino ha risolto il problema: tutta la realtà si può dividere tra quanto è compreso nelle parole scritte sulle righe di un foglio, e quanto ne sta fuori. Tra un mondo scritto ed uno non scritto, appunto. E abbiamo così sciolto l’enigma millenario sullo statuto ontologico degli oggetti ideali.

Quando mi stacco dal mondo scritto per ritrovare il mio posto nell’altro, in quello che usiamo chiamare il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili, questo equivale per me ogni volta a ripetere il trauma della nascita, a dar forma di realtà intellegibile a un insieme di sensazioni confuse, a scegliere una strategia per affrontare l’inaspettato senza essere distrutto”. 

Leggere Calvino dà la sensazione di farsi un bagno in un fiume dopo una giornata trascorsa in una terrosa campagna, di risciacquarsi le membra in un torrente benefico di parole, di liberarsi dalla putredine e dalle incrostazioni dei luoghi comuni, dei pensieri inespressi, dei concetti accartocciati. Leggi una frase come questa, e comprendi che puoi anche estendere i periodi tirando lunghe e benefiche boccate di ossigeno neuronale, senti i pori delle tue sinapsi aprirsi per accogliere tutte le possibili sfumature di senso che le parole trasmettono, percepisci i suffumigi di un aerosol di intelligenza con cui puoi finalmente curare i tuoi pensieri costipati e infettati da troppe espressioni insignificanti nei quali sono rimasti abbandonati. Tutto il sapere del mondo, di tutti i mondi e di tutti i saperi, sembra fluire leggero, rapido e corroborante attraverso le sue parole, dal testo alla tua testa.

Al punto che hai quasi i sintomi di una vertigine semantica, provi l’ebrezza della comprensione, il tuo cuore pulsa di forti battiti sonori, la mente disegna arabeschi di pensieri: hai finalmente compreso tutto il comprensibile. 

E hai l’illusione che sia tutto facile, tutto assimilabile, tutto visibile perché la sua prosa agevola, rende, illumina.

Ma tutta questa apparente semplicità è un’illusione. 

Dietro le sue parole c’è fatica, studio, cesello, dolore, sudore, lacerazione, disperazione. Uscire dalle righe del testo per entrare nel mondo non scritto è un trauma non meno estenuante che peritarsi a far rientrare quest’ultimo in un libro.

E questa pratica, Calvino lo sapeva, diventa molto difficile quando l’armamentario disponibile all’autore per far entrare un mondo nell’altro è dato dalla lingua italiana.

Calvino conosceva e utilizzava l’italiano come solo pochissimi hanno avuto il coraggio di fare negli ultimi decenni (e pochi si sono peritati a provarci dopo di lui); ha sempre combattuto contro le derive della cloroformizzazione e dell’ipertrofia del linguaggio provocata dal potere. Indimenticabili le sue intemerate contro il gergo burocratico, contro la lingua di plastica dei verbali di polizia, contro il terrore semantico che inspiegabilmente prende i locutori istruiti nell’utilizzare verbi apparentemente innocui come “prendere”, “mettere”, “togliere”, “trovare”, “dare” (e le terribili alternative lessicali che vengono adoperate in loro vece come “effettuare”, “incorrere”, “imbattersi”). La spersonalizzazione dell’enunciazione, la scomparsa del soggetto, la resa incondizionata alle perifrasi oggettive implicite dal sapore nauseoso.

Eppure, forse, se non una spiegazione, quantomeno un’attenuante c’era. 

mondo scritto e mondo non scritto

Come ricorda Calvino a proposito del confronto tra l’italiano e le altre lingue, “gli scrittori italiani hanno sempre un problema con la propria lingua” (e massime, diremmo noi, se privi di adeguati mezzi espressivi, come il famoso brigadiere alle prese con la stesura di un verbale).

E perché? Perché scrivere in italiano, ci ricorda, “non è mai un atto naturale; non ha quasi mai un rapporto col parlare. Gli stranieri che frequentano degli italiani avranno certo notato una particolarità della nostra conversazione: non sappiamo finire le frasi, lasciamo sempre le frasi a metà”.

Certo, i francesi sono abituati a cominciare le frasi e a finirle, i tedeschi devono sempre mettere il verbo in fondo alla frase e, e anche gli inglesi adoprando una lingua analitica che deve sempre usare i pronomi e gli ausiliari e metterli al posto giusto, insomma sono tutti portati ad usare grande proprietà nella costruzione dei periodi. Ma gli italiani?

Ecco cosa ne diceva Calvino: “l’italiano parlato nella conversazione corrente tende a svanire continuamente nel nulla, e se si dovesse trascriverlo si dovrebbe fare un uso continuo di puntini di sospensione”.

Anche Umberto Eco, ironizzava sull’argomento, affermando che l’articolo 1 della costituzione dovrebbe recitare: “l’Italia è una repubblica fondata sui puntini di sospensione”.

Ma il problema è serio, effettivamente; ed è solo ponendosi il problema di una traduzione di un testo italiano in un’altra lingua che emerge in tutta la sua portata; solo uno sguardo metalinguistico riesce a cogliere le sfumature del mezzo espressivo utilizzato.

Solo i ladri sanno essere metaletterali, diceva Paolo Fabbri, perché riescono a leggere i dettagli della realtà che a tutti gli altri sfuggono; e la traslitterazione di un mondo non scritto in un libro, in fondo, è una specie di furto, richiede un occhi vigile attento a rubare ogni frammento.

Continuando a leggere le considerazioni di Calvino, vediamo le sue frustrazioni di fronte al sofferto rapporto con la propria lingua diventare addirittura drammatiche nel confronto con le proprie versioni in lingue straniere: “confrontando la traduzione vedevo che nel mio testo una parola era usata con un’intenzione ironica appena accennata che la traduzione non raccoglieva, una subordinata nel mio testo era velocissima mentre nella traduzione prendeva un’importanza ingiustificata e una pesantezza sproporzionata; il significato di un verbo nel mio testo era sfumato dalla costruzione sintattica della frase mentre nella traduzione suonava come un’affermazione perentoria: insomma la traduzione comunicava qualcosa di completamente diverso da quello che avevo scritto io”.

La connotazione lessicale, la rapidità ipotattica, la leggerezza predicativa ottenuta con una sfumatura perifrastica, la costruzione sintattica funzionale alla resa informale del verbo.

Non sta parlando delle sue traduzioni, ma dei meccanismi segreti delle sue costruzioni letterarie; attraverso l’analisi metalinguistica tutto questo è  possibile, e la traduzione diventa la vera lettura di un testo, quasi il lettino dello psicanalista dello scrittore.

E in particolare dello scrittore italiano, problematico quant’altri mai, come rivelava con impietosa sincerità: “lo scrittore italiano vive sempre o quasi sempre in uno stato di nevrosi linguistica. Deve inventarsi il linguaggio in cui scrivere, prima d’inventare le cose da scrivere. In Italia il rapporto con la parola è essenziale non solo peri il poeta, ma anche per lo scrittore in prosa”.

Ma per fortuna, in qualche caso – e in lui era certamente il caso – certi prosatori nevrotici sono stati in grado di partorire immensi capolavori.

Chi sono

31 anni, blogger, agente letteraria e mamma di Gemma e Tessa. Credo fermamente nella bibliodiversità e nelle realtà editoriali indipendenti, le quali spesso nascondono perle di cui pochi sono a conoscenza.

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