Cari lettori, oggi la nostra Lina Morselli ci parla di “Arrivederci arancione“, romanzo di Iwaki Kei, edito Edizioni E/O.
Questa è una storia immediata, come lo potrebbe essere un servizio del telegiornale, che deve andare dritto al cuore e alla testa di chiunque ascolti, giovane o vecchio, di ogni estrazione sociale. Questa è una storia di emigrazione, di drammi, di fatiche, di dolori, di integrazione. Questa è una storia che potrebbe rappresentare le vite di quanti, per milllanta ragioni, devono lasciare la loro terra e radicarsi altrove. Le vicende si svolgono in Australia.
PERSONAGGI E TRAMA
I personaggi principali sono tutte donne: l’africana Selima,che deve crescere da sola due figli, la giapponese Riccio, che invece una figlia la perde, l’italiana Paola, attempata, ruvida e senza figli e un’insegnante di inglese con i capelli rossi. Gli uomini non mancano certo, ma hanno il compito di fare da ascoltatori, o da pazienti sostegni, o da intralci fastidiosi: un marito che se ne va, un altro che scopre la sua vocazione a fare il nonno, un altro ancora, camionista semi analfabeta dall’animo gentile, un professore d’inglese, il giovane e timido direttore di un’azienda. I destini si intrecciano, nello svolgersi di vite che non hanno niente di eroico, se non la quotidiana lotta per una sopravvivenza dignitosa. Selima, Riccio, Paola, si ritrovano a svolgere un lavoro duro e spesso disgustoso: tagliano a pezzi carne e pesce, in un flusso continuo di schizzi sanguinolenti e odori nauseanti, ma è quanto permette loro di mettere insieme due pasti al giorno. Selima è quella più in difficoltà, perché ha sì una lingua madre, ma è quasi analfabeta, quindi per lei imparare a leggere e scrivere in inglese è una sfida cento volte più difficile che per altri. E’ sostenuta dalla sua volontà, e dalle sue compagne di lavoro, che a loro volta sono da lei seguite e aiutate, prima fra tutte Riccio, talmente sconvolta dalla morte in culla della sua bambina, da lasciare gli studi appena intrapresi richiudendosi in un dolore ottuso. Come sempre, qualcosa accade e manda avanti il mondo: Selima viene notata dal direttore della fabbrica, che la promuove; nello stesso tempo stringe un sodalizio col suo figlio minore, e la sua insegnante dai capelli rossi premia la sua solida conoscenza linguistica iscrivendola all’esame per diventare Direttrice della fabbrica. Dal canto suo, Riccio scopre di essere di nuovo incinta; grazie al buon lavoro del marito compra casa, e finalmente si iscrive all’Università per completare gli studi, forte dell’aiuto dell’anziana Paola, che diventerà, con l’attempato marito, la babysitter della neonata. E qualcosa ancora, il finale vero, quello delle ultime pagine lo lasciamo al piacere dei lettori, come si conviene alle belle storie.
IL PREGIO DEL LIBRO
Tutto rose e viole con happy end? Sembra, ma non è così: il pregio di questo libro sta nel cammino descritto, nella puntigliosa descrizione delle sensazioni e del vissuto quotidiano di chi si sente straniero sempre e comunque. E soprattutto si resta affascinati dalla semplice verità di quanto sia irta di ostacoli la comunicazione fra esseri umani, quanto pesi padroneggiare una lingua, quanto incida nella nostra vita la ricchezza delle parole che possediamo, come debba un insegnante allargare il suo intervento anche nella sfera emozionale dei suoi alunni. Mai nessuno parla di tornare indietro, non c’è alternativa alla resistenza, denti e muscoli restano stretti e rigidi, in attesa di un sospiro liberatore, che arriverà, deve arrivare.
IL SENSO PROFONDO DELLA NARRAZIONE
Qual è, alla fine, il senso profondo di questa narrazione? Non credo sia la denuncia (persino banale) della condizione degli immigrati, né la considerazione (altrettanto banale seppur verissima) di quanto peso riescano a sopportare le spalle delle donne. Credo piuttosto che la chiave di lettura e interpretazione stia nel rapporto che le protagoniste hanno con le parole, la loro conquista linguistica che va di pari passo con la conquista di una nuova vita. Parlare, comunicare, chiedere e capire sono la chiave del loro successo, e questo va persino al di là degli ostacoli culturali, del colore della pelle, delle condizioni economiche. Nonostante proprie queste ultime siano diverse, non costituiscono un limite al sostegno reciproco, alla condivisione di tempi, spazi e problemi, non creano distanze. L’obiettivo puntato sulle difficoltà degli immigrati si allarga così ad inquadrare una problematica relazionale comune a tutti noi, cittadini della Terra: considerare le proprie radici, coltivare la propria lingua madre, non ci esime dal conoscere altro, non ci solleva dal sapere, dal vedere, dall’imparare. Sulle fondamenta del nostro vissuto originario possiamo e dobbiamo costruire il resto del Mondo.
LO STILE DI SCRITTURA E I PANINI AL SALAME
La semplicità e l’immediatezza della scrittura, rischiano di far arricciare il naso a chi si aspetta un romanzo accademico, e una facile accusa a questo libro potrebbe essere l’eccessiva facilità, l’andamento scontato di alcune situazioni o di alcune riflessioni. Magari è anche un po’ vero, ma mi viene di paragonare questa storia ad un panino al salame, o con la farcitura che preferite, quella che vi fa passare la botta di fame, in attesa di un pasto più strutturato. E siccome i panini ben conditi piacciono a tutti, meglio abbassare la spocchia di certa critica letteraria e riconoscere che una volta tanto questa facilità va benissimo, ci fa bene, ci riempie testa e cuore.
LA SCRITTRICE
Due parole finali per l’autrice: la giapponese Iwaki Kei, classe 1971, si è trasferita in Australia, dove oggi si occupa ancora di traduzioni. Indubbiamente in questo suo primo romanzo c’è molta della sua esperienza di vita, e commuove, alla fine, la pagina di vero amore per la sua lingua madre, unitamente all’amore per l’inglese, completamente conquistato e padroneggiato. Aggiungo che con questo romanzo l’autrice ha vinto in Giappone il Premio Oe Kenzaburo, forse il più importante del Sol Levante, e tra i più prestigiosi al mondo.
(RECENSIONE DI LINA MORSELLI)
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