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Barracoon, l’ultimo schiavo

Autore: Zora Neale Hurston

Editore: 66THAND2ND

Categorie: Libri

Dei milioni che sono stati portati dall’Africa alle Americhe, è rimasto un uomo soltanto. Si chiama Cudjo Lewis e oggi vive a Plateau, Alabama, un sobborgo di Mobile. Questa è la storia di Cudjo”.

Così inizia questo libro che è molto di più di una semplice storia, è la testimonianza diretta dell’unico sopravvissuto della Clotilda, l’ultima nave negriera sbarcata in America lungo la tratta Atlantica. Oggi vi parlo di Barracoon, l’ultimo schiavo” di Zora Neale Hurston, edito 66THAND2ND.

Zora Neale Hurston ha le idee chiare e non tarda a condividere al lettore qual’è il suo intento nei confronti di Cudjo Lewis: “Vorrei sapere chi sei e come mai sei diventato uno schiavo, da quale parte dell’Africa vieni, come vivevi quando eri uno schiavo, e come hai vissuto da uomo libero”.

LA CLOTILDA

L’ultimo cargo di schivi, la Clotilda, partì nel 1859 e solcò la via che collega all’Africa Occidentale e le Americhe. Un piccolo frammento di quella che è stata la più grande e terribile migrazione forzata che ha sradicato milioni di persone dai loro villaggi, dalla propria terra, e li ha rinchiusi, come merce da contrabbando nei barracoon, i recinti in cui venivano tenuti i prigionieri di guerra dei principi africani in attesa di essere venduti ai commercianti americani o europei.

CUDJO LEWIS – KOSSULA

Il volto di Cudjo Lewis si riga di lacrime, quando comincia a ricostruire con l’antropologa Zora Neale Hurston la storia della riduzione in stato di schiavitù. Nel luglio del 1927 Hurston e Cudjo s’incontrarono per la prima volta per un racconto destinato al Journal of Negro History. Zora entrò nella casa di Cudjo Lewis, raccogliendo la storia dalla voce di un testimone diretto in grado di descrivere l’odissea dell’ultimo carico di schiavi approdato negli Stati Uniti d’America.

Il mio nome non è Cudjo Lewis. È Kossula. Quando sono venuto nella terra dell’America il signor Jim Meaher ha provato a dire il mio nome, ma siccome è troppo lungo, io gli ho chiesto: “Senti, io sono una cosa tua?”. Lui ha detto: “Sì”. E così io ho detto: “Allora chiamami Cudjo. È uguale”. Nella terra dell’Africa, però, mamma mi ha chiamato Kossula”.

I SENTIMENTI DEGLI SCHIAVI

Isolamento, nostalgia, mancanza, sono sentimenti dominanti nell’epopea afroamericana che si affollano anche nelle parole semplici ma toccanti di Kossula. Separando i figli piccoli dai genitori si perdevano nel giro di una generazione le lingue materne, le culture e le religioni degli avi, anche solo la conoscenza del paese africano d’origine. E il dilaniante vuoto identitario era tanto più grave in un Paese segregazionista dove il colore della pelle etichettava immediatamente i discendenti degli schiavi come “diversi”. Un vuoto che gli intellettuali afroamericani si sforzeranno di riempire raggranellando il più possibile informazioni sulla storia e sulla cultura dei loro antenati, sforzo che si arresta inesorabilmente di fronte all’Atlantico. Neanche i nomi d’origine erano rimasti: agli schiavi si dava quello dei padroni o uno d’invenzione.

Oddio, quanto ha sofferto, Cudjo, su quella nave! Il mare mi metteva così paura! Perché l’acqua faceva tanto rumore. Certe volte la nave saliva verso il cielo, poi scendeva giù verso il fondo del mare. Non siamo scesi a terra per settanta giorni.”

CONCLUSIONE

“Barracoon” non vuole puntare il dito solo contro l’uomo bianco, questo racconto è una ferita aperta che deve costringere gli stessi africani a guardarsi in faccia per quello che sono: non solo vittime, ma corresponsabili del commercio di schiavi. Per questo motivo, come scrive nella prefazione Alice Walker, «“Barraccon” è stato per anni osteggiato dagli stessi intellettuali e politici neri per come narra le atrocità che gli africani hanno inflitto gli uni agli altri ben prima che alcuni africani in catene, traumatizzati, malati, disorientati e affamati giungessero via nave nell’inferno dell’Occidente sotto forma di “carico nero”. Come si fa a sopportare la spietata crudeltà di cui si sono macchiati i “fratelli” e le “sorelle” che per primi hanno ridotto in schiavitù i nostri antenati? (…) È una lettura straziante, questa, è inutile girarci intorno.»

E forse, aggiungo io, sempre per questo motivo il libro è stato pubblicato solo lo scorso anno negli Stati Uniti, anche se risalente al 1931.

Chi sono

31 anni, blogger, agente letteraria e mamma di Gemma e Tessa. Credo fermamente nella bibliodiversità e nelle realtà editoriali indipendenti, le quali spesso nascondono perle di cui pochi sono a conoscenza.

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1 commento

  1. pietro

    Bisognerebbe espandere il contributo degli africani (e arabi) nella cattura e vendita degli schiavi. Oggi tutto è monocromatico.

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